I dazi come minaccia contro la tassazione delle Big Tech, generose finanziatrici del presidente Usa

L’equità fiscale è merce di scambio tra Trump e l’Ue

C’è qualcosa di profondamente inquietante nella trattativa in corso tra Stati Uniti ed Europa sui dazi, una trattativa che più che un negoziato somiglia a un ultimatum. Entro il 9 luglio, data imposta da Washington, Bruxelles dovrà trovare un accordo commerciale che eviti una nuova stagione di guerre tariffarie. Ma a quale prezzo? L’aria che si respira, dopo l’ultimo G7, sa di resa incondizionata.

 

La decisione dei leader del G7 di esentare temporaneamente le multinazionali americane dal pagamento della Global Minimum Tax del 15 per cento, non è solo una scelta tecnico-economica: è un cedimento politico. È l’arretramento dell’Europa di fronte al ricatto, alle minacce di ritorsioni automatiche che Donald Trump ha promesso nei confronti di chi oserà toccare le big tech americane. Una “revenge tax” in piena regola, disegnata per colpire quei Paesi – come l’Italia – che hanno introdotto una tassazione sui servizi digitali.

 

La web tax italiana, introdotta con fatica e già oggetto di contestazioni interne, prevede un prelievo del 3 per cento sui ricavi delle aziende con fatturato globale oltre i 750 milioni di euro, che operano fornendo servizi online. Un provvedimento minimo, insignificante se paragonato alle aliquote fiscali sostenute dai contribuenti italiani che comprendono anche il 43 per cento, ma sufficiente a scatenare l’ira del tycoon. E così, mentre Amazon, Google, Meta e gli altri colossi di Silicon Valley continuano a macinare profitti miliardari sfruttando infrastrutture, consumatori e mercati stranieri, a pagare il prezzo della rappresaglia americana rischiano di essere ancora una volta le imprese italiane ed europee.

 

Nel mirino della possibile risposta-ritorsione a stelle e strisce ci sono comparti chiave del nostro sistema economico: l’agroalimentare, la moda, l’automotive, il design. Settori che esportano eccellenze, che reggono la bilancia commerciale e che sono già provati da inflazione, instabilità geopolitica e aumenti delle tariffe energetiche. Un’ulteriore penalizzazione tariffaria, imposta per compiacere il potere tecnologico americano, sarebbe un colpo durissimo.

 

E mentre l’Europa si piega alla minaccia, la politica economica globale assiste impotente. La Banca dei Regolamenti Internazionali ha già lanciato l’allarme: l’incertezza legata alle tensioni commerciali rischia di frenare la crescita globale e provocare un crollo del Pil nei prossimi trimestri. È incredibile come ancora una volta con inaudita tracotanza Trump sia riuscito a strumentalizzare la questione dazi per proteggere solo i grandi donatori della sua campagna elettorale, più che l’equilibrio dei mercati.

 

Il paradosso è che proprio mentre si moltiplicano le voci sulla necessità di una regolamentazione più equa del digitale, l’Europa decide di farsi da parte. Invece di stringere un fronte comune, la politica europea balbetta, si divide, si accontenta di proroghe e compromessi. E in questa incertezza, il gigante americano avanza, forte del suo soft power e della sua capacità di usare le leve economiche come armi geopolitiche.

 

È l’ennesima occasione mancata per dire che i diritti fiscali, la sovranità digitale e l’equità tra contribuenti – piccoli o grandi, locali o globali – non sono merce di scambio in una trattativa commerciale. Ma evidentemente ci vuole più coraggio per alzare i dazi su Amazon che per abbassare la testa davanti al prossimo tweet di Trump.

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