Opinioni
13 agosto, 2025Come si sopravvive da testimoni della distruzione di un popolo? Ecco sette azioni per restare lucidi
«Continuare a mobilitarsi come atto di psicoterapia collettiva», ha detto Francesca Albanese intervenendo alla Città dell’Altra Economia. Come sopravvivere alla guerra psicologica che Israele opera nei confronti della solidarietà con il popolo palestinese? A questa domanda un gruppo di psicologhe che vogliono «decolonizzare la salute mentale» risponde con una guida pratica. Il concetto alla base è che essere testimoni di un genocidio in live streaming e sentirsi inutili è parte integrante della propaganda sionista. Parlano di una strategia che non si concentra tanto su ciò che vediamo quanto su come ci sentiamo nell’essere testimoni dell’ultima fase dell’annientamento di un popolo: inutili, dissociati, in colpa per essere da questa parte del mondo o per non avere fatto abbastanza.
Questo sentire non è solo una conseguenza di quello che succede in Palestina, ma anche una tattica a cui si può rispondere con sette strumenti pratici per «resistere all’indifferenza e alla disperazione nel rispetto di coloro che la vivono in prima persona». Suggeriscono prima di tutto di nominare la manipolazione in corso: la guerra psicologica che subiamo prospera nella confusione, nel silenzio. È molto utile dire, per esempio, «questa disperazione è parte di un piano», «quello che sto vedendo vuole farmi sentire futile», «essere testimone di un genocidio via social media ha lo scopo di distrarmi, sovraccaricarmi e farmi, in ultimo, dissociare». Come secondo strumento consigliano di rivendicare l’agire attraverso strutture organizzate: il sentirsi senza speranze si rafforza nel caos. Le strutture di mobilitazione risanano invece un senso di agibilità, direzione e possibilità. Il terzo strumento è organizzarsi in piccole comunità basate sulla fiducia. In questo momento storico incontrarsi in gruppi più piccoli può aiutare a elaborare rabbia e lutto. Consigliano di fare di tutto affinché gli spazi di lotta siano luoghi per processare le informazioni e il trauma e non per performare la militanza. Il quarto strumento è mappare le proprie emozioni, rispondere per iscritto a domande come «di cosa sono stato testimone oggi?», «che significato ne estrapolo?». Questi stimoli aiutano a non annichilirci emotivamente, a conservare intatta la nostra umanità e a riconoscere, ogni giorno, che vedere le persone morire per bombe e fame ci distrugge irreparabilmente.
Il quinto punto è quello di ancorarci nel concetto di Sumud, di difficile traduzione dall’arabo, ma simile a fermezza, resistenza o perseveranza. Non significa immobilità, ma resistere rifiutandosi di sparire: «Non ti viene chiesto di stare bene, ma di essere radicato per continuare a organizzarti e ad agire». Sumud per le persone solidali sta nell’autoregolarsi emotivamente e nel guardare con lucidità il presente. Il sesto consiglio è quello di proteggere il proprio sistema nervoso, profondamente destabilizzato dal sovraccarico digitale e mediatico. Bisogna prendersi una pausa dal guardare ossessivamente, senza prendersi una pausa dall’impegno: è essenziale «assorbire il contesto, non solo le immagini».
Questi consigli non sono per prenderci cura del nostro comfort, ma della nostra capacità di azione e lotta affinché non si esaurisca. In ultimo, non ci isoliamo; l’entità sionista si nutre dell’isolamento e dell’individualizzazione del dolore: «Lucidità, solidarietà e coerenza sono atti di resistenza».
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