Opinioni
21 agosto, 2025La Corte costituzionale è ancora una volta intervenuta per ribadire umanità della pena e finalità
La crisi della politica è profonda e porta con sé la marginalizzazione del Parlamento ridotto a mettere il bollo ai decreti legge. Si comprende così perché si ricorra sempre più alle Corti, nazionali o internazionali, ma non ci si può illudere che facciano la parte del legislatore. La Corte costituzionale ha compreso la sollecitazione a essere un’àncora di salvezza della democrazia e, negli ultimi anni, ha prodotto sentenze coraggiose nei contenuti e nella costruzione delle disposizioni.
Il 29 luglio scorso è stata depositata la sentenza n.139, relatore Francesco Viganò, sull’esclusione dalle pene sostitutive dei condannati per reati ostativi. Il suo comunicato stampa riassume i termini della questione sollevata da una gup del Tribunale e dalla Corte d’Appello di Firenze. Dopo avere affermato la legittimità della scelta del legislatore – in questo caso della riforma Cartabia – di escludere i reati del 4-bis dell’ordinamento penitenziario dall’applicazione di pene sostitutive, nel primo capoverso aggiunge una frase che rivela l’imbarazzo per una decisione difficile e controversa: «Ma il legislatore e l’amministrazione penitenziaria hanno il preciso dovere di assicurare a tutti i condannati a pene detentive “condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena”». Principio ribadito nella conclusione per cui «resta ferma in ogni caso la necessità che anche per i condannati per questi reati la pena detentiva sia eseguita in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo». Condizioni non sempre assicurate, oggi, nelle carceri italiane, dove la situazione di sovraffollamento «rende particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena».
Un monito che si aggiunge ad altri autorevoli appelli e che, però, rischia di rimanere inascoltato dall’inquilino sordo e cinico di via Arenula. L’avvocato Passione, che ha il merito di avere sollevato la scottante questione, non è riuscito nell’obiettivo di aprire il vaso di Pandora, ma ha comunque avviato una discussione che di certo non si chiude qui.
La preclusione assoluta riguarda circa 9.000 detenuti «in relazione all’intero novero (invero assai eterogeneo) dei reati di cui all’art. 4-bis». È vero: la Corte non ritiene viziata da irragionevolezza la scelta del legislatore. Ribadisce però che la rieducazione, pur non rappresentando l’unica finalità legittima della pena, non può mai essere interamente sacrificata aprendo prudentemente a sperimentazioni progressive che coinvolgano i reati meno offensivi rispetto al sentimento della collettività.
Osservo che appare sempre più necessario un ripensamento coerente tra pene sostitutive e misure alternative dopo avere “assaggiato” la galera e, soprattutto, che va riaffermato il principio del carcere come “extrema ratio”, eliminando alla radice la detenzione sociale di massa.
La sfida dell’articolo 27 va letta come faceva Franco Battiato: «Qualsiasi criminale, soprattutto il più incallito, è recuperabile. In passato assassini sono diventati santi. È questo il processo più straordinario che possa accadere. Si può diventare buoni dopo essere stati cattivi. È più importante, e più interessante».
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