Opinioni
21 agosto, 2025Articoli correlati
È chiaro che lo scontro è tutto politico. Ma un grande progetto andrebbe esaminato a prescindere
La mia idea sul ponte me la sono fatta da un pezzo. Esattamente quarantatré anni fa – era il 1982 – raccontai su Repubblica di quel progetto per unire Scilla e Cariddi. E fu Oscar Andò, l’ex sindaco democristiano di Messina nominato dal governo Cossiga presidente della società incaricata di verificare la realizzabilità dell’opera, a convincermi che il ponte non sarebbe servito solo a far passare in cinque minuti i viaggiatori e le merci che oggi restano incagliati per un’ora o due nella gabella dei traghetti (41 euro per tratta). «Quello sarà certo un grande vantaggio per l’economia siciliana e per tutti gli italiani che vogliono arrivare nell’isola – mi disse con l’entusiasmo di un ventenne, lui che aveva appena superato gli ottanta – ma se noi riusciremo in questa impresa che oggi sembra impossibile metteremo fine non solo all’isolamento geografico ma anche a quella separatezza culturale che è la nostra palla al piede. E lo faremo con un’opera che diventerà un simbolo del genio italiano, una meraviglia di cui ogni siciliano sarà orgoglioso».
Certo, anche allora c’era chi diceva: e se c’è un terremoto come quello del 1908? E se il vento lo butta giù? E se la mafia mette le mani sugli appalti? E se poi uno arriva in Sicilia e trova queste strade e queste ferrovie? Eppure mi convinsi che quel sognatore con i capelli bianchi aveva ragione: era un’impresa che valeva la pena tentare. Così ho seguito passo dopo passo le simulazioni degli effetti di un terremoto, le prove nella galleria del vento, le analisi sulla deformabilità della struttura. E ho letto tutte le obiezioni dei “No Ponte”, ovviamente mai soddisfatti. Ce n’è una che nessun ingegnere potrà mai vincere: quella di chi dice «a noi lo Stretto piace così com’è, senza il ponte». È una posizione che merita rispetto. Ma le altre critiche sono esattamente uguali a quelle che vennero mosse un secolo fa al progetto di un altro ponte, il Golden Gate Bridge. Allora gli oppositori dell’opera stamparono dei volantini in cui mostravano il ponte che crollava sotto il peso del traffico. Un gruppo di geologi sostenne che non avrebbe mai potuto resistere a un terremoto. E tredici ingegneri firmarono un appello per avvertire che una campata da 1.280 metri era «un grande azzardo», mai tentato prima. Alla fine, come sappiamo, il Golden Gate è diventato il simbolo di San Francisco (e ha resistito senza problemi al terremoto del 1989, solo di 0,2 gradi meno potente di quello che nel 1908 rase al suolo Messina e Reggio Calabria).
Ormai però è chiaro che lo scontro tra favorevoli e contrari è tutto politico. È così da quando Bettino Craxi si schierò per il ponte. E dopo di lui si sono intestati il progetto altri due presidenti del Consiglio, prima Silvio Berlusconi e poi Matteo Renzi. Non Romano Prodi, che quando stava all’Iri era favorevole ma arrivato a Palazzo Chigi cambiò posizione per accontentare i verdi. L’esatto opposto di Matteo Salvini, che con una delle sue spericolate capriole è passato da contrario a favorevole e magnifica i vantaggi dell’opera come se l’idea l’avesse avuta lui.
Così i sondaggi ci dicono che l’Italia è spaccata in due. Favorevoli la maggioranza dei sostenitori del governo Meloni e quelli di Renzi e Carlo Calenda, contrari soprattutto quelli del resto dell’opposizione. Non c’è un dibattito vero, ma uno scontro tra due tifoserie. Ed è un peccato, perché il ponte è un grande progetto che andrebbe esaminato a prescindere da quello che hanno detto Craxi, Berlusconi e Renzi. Una sfida che andrebbe valutata serenamente. Nonostante Salvini.
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