Opinioni
21 agosto, 2025La siderurgia non è salva. L’acciaio verde non esiste. Sull’ex Ilva si gioca il riassetto industriale e geopolitico
L’irresponsabile ministro Adolfo Urso nasconde la verità agli italiani, sulle spalle dei tarantini. La siderurgia non è affatto salva, come ha affermato imprudentemente all’assemblea della Cisl, il sindacato amico del governo. Non ci sono nessun rilancio e nessuna riconversione ecologica nel futuro dell’ex Ilva a Taranto. Tutt’altro.
Sarebbe più interessante capire invece cosa ha detto il ministro qualche giorno fa al Copasir, l’organo del Parlamento che svolge funzioni di controllo sull’attività dei servizi segreti italiani. Di sicuro non ha spiegato come intende portare avanti i piani di decarbonizzazione, visto che prevedono la produzione di acciaio con il carbone per poi passare al gas. Quello statunitense, s’intende. L’«acciaio verde» di cui si parla tanto non esiste. E non è l’ancora di salvezza auspicata dalla Commissione europea per rilanciare l’occupazione nel settore attraverso il “Clean Industrial Deal”. In realtà c’è una sovrapproduzione di acciaio in tutto il mondo, come denuncia una ricerca del New York Times. E nessuno vuole rallentare.
Quanto acciaio realmente serve allora? Per cosa? Non è nemmeno il profitto ciò che muove l’interesse verso l’Ilva. L’ammontare complessivo delle perdite dal 2018 al 2022 è di 4 miliardi e 737.693.528 euro. Secondo il Sole 24 Ore, l’Ilva viaggia sui 100 milioni di passività al mese. Solo in un’economia di guerra si può produrre in perdita. In pratica, quella in cui siamo. Che cosa nasconde la finta transizione ecologica? Il green washing serve per nascondere le La siderurgia non è salva. L’acciaio verde non esiste.
Sull’ex Ilva si gioca il riassetto industriale e geopolitico vere intenzioni del governo: sganciare la dipendenza industriale europea dalla Cina e quella energetica dalla Russia. Giorgia Meloni porta avanti gli obiettivi della «Nato’s economy», come denunciano i movimenti tarantini, per riportare le catene di approvvigionamento dentro i confini euro-atlantici. Come per il gas.
L’imperativo categorico meloniano è affrancarsi da quello russo, da cui l’Italia dipende ancora per un 5 per cento. Perciò vogliono installare a Taranto una nave rigassificatrice in grado di dare proprio il 5 per cento con gas liquefatto statunitense, of course. Che costa di più e ha un impatto ambientale molto più alto del metano nei gasdotti. Più che un’alternativa al gas di Vladimir Putin, una cambiale a lungo termine che costringe l’Italia a dipendere dagli interessi delle grandi imprese statunitensi. E il costo per l’Italia è altissimo. Ma soprattutto, ancora una volta, prevede il sacrificio di Taranto e dei diritti della sua comunità. Che prima ha subìto mezzo secolo d’inquinamento in nome degli interessi della siderurgia e oggi viene usata per il grande scontro geopolitico imminente tra Usa e Cina.
È la verità. Per i tarantini l’ennesima punizione, nonostante gli impegni presi dalle istituzioni anche di recente. Si torna a prima del 2012. Acciaio e gas sono i nuovi strumenti della ridefinizione strategica dell’industria europea per determinare gli assetti geopolitici. Sono le conseguenze dell’economia di guerra imposta dal duo Meloni-von der Leyen. I patrioti al governo, campioni di sovranità a stelle e strisce. Aspettando che il centrosinistra si chiarisca le idee su quale modello industriale e sociale adottare, realtà tarantine a partire da PeaceLink denunciano l’opacità del- le scelte dietro a parole sempre più vuote come «rilancio» e «transizione». Chiedono un confronto pubblico «che metta al centro non i diktat geopolitici, ma i diritti delle persone e l’integrità ambientale». Come dargli torto. Facciamo Eco!
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