Mondo
16 settembre, 2025Vincitrice del Goldman Environmental Prize, il “Nobel dell’ambiente”, da anni guida la comunità di St. James, in Louisiana, contro le multinazionali del petrolchimico
«La terra in cui vivo è la terra dei nostri antenati. L’industria vuole profanarne il ricordo, ciò che resta della nostra storia». Quando Sharon Lavigne ha scoperto che una delle più grandi multinazionali della plastica, la Formosa Plastics, stava per far sorgere un enorme complesso petrolchimico a St. James Parish, in Louisiana, proprio sopra un antico cimitero di schiavi, ha capito che la sua battaglia non riguardava soltanto l’inquinamento. Quella terra, attraversata dal fiume Mississippi a metà strada tra la capitale Baton Rouge e New Orleans, era una piantagione di canna da zucchero, coltivata dai suoi avi, deportati dall’Africa. «Durante le nostre ricerche, abbiamo trovato un cranio e altri resti umani. Quando la compagnia ha acquistato quell’area, sapevano benissimo che lì c’erano delle ossa, ma non hanno detto nulla», racconta. «Siamo stati noi a portare la questione al consiglio parrocchiale, spiegando che il permesso a Formosa andava revocato, perché avevano mentito. Su quella proprietà abbiamo trovato quattro siti funerari. Ma al consiglio non importava: non erano i loro antenati».
St. James Parish si trova nel cuore di un corridoio industriale di circa 135 chilometri disseminato di oltre 150 impianti chimici, detto Cancer Alley. Ribattezzata così dagli stessi residenti, è una delle zone più inquinate degli Stati Uniti. Il rischio di ammalarsi di tumore è fino a cinquanta volte superiore alla media nazionale. Qui le comunità afroamericane e a basso reddito convivono con torri di raffineria, camini che sputano fumi tossici e depositi chimici separati dalle case solo da recinzioni di metallo. È uno degli esempi più drammatici di razzismo ambientale: impianti pericolosi posti in aree vulnerabili, prive del potere politico ed economico per opporsi.
«Nella nostra zona», spiega Sharon Lavigne, «in un raggio di quindici chilometri, ci sono già dodici impianti. Il corpo umano non può sopportarne altri. Per questo ho deciso che non sarebbe mai stato costruito». Fino ad allora aveva lavorato come insegnante di sostegno, senza alcuna esperienza politica: «Per me era tutto nuovo. Quando Formosa ha annunciato il progetto, ci dissero che non c’era più niente da fare: tutto approvato, affare chiuso. Proprio questo ci ha dato la forza di iniziare: abbiamo capito che nessuno ci avrebbe difesi, quindi lo abbiamo fatto da soli». Così, nel garage di casa sua, è nata Rise St. James, organizzazione dal basso diventata un simbolo mondiale di resistenza comunitaria alle prepotenze dell’industria. Negli anni, le loro mobilitazioni hanno impedito l’arrivo della compagnia cinese Wanhua, bloccato un impianto di metanolo e ritardato a lungo l’espansione della stessa Formosa Plastics. Nel 2021, grazie a questi successi, Lavigne ha ricevuto il Goldman Environmental Prize, il più prestigioso riconoscimento mondiale per l’attivismo ambientale.
Oggi è un riferimento per chiunque si occupi di giustizia climatica. In Italia, ha incontrato i comitati che si oppongono alla costruzione dell’inceneritore ad Albano Laziale. «In tanti sono venuti a chiedermi: “Come si comincia?”, io racconto quello che ho fatto, non ci sono segreti». La solidarietà internazionale tra movimenti «è molto importante, solo unendo le nostre voci potremo avere giustizia. Con gli attivisti che ho incontrato in Italia sento che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, stiamo vivendo le stesse cose». È un effetto domino: uno comincia e gli altri seguono «ma bisogna stare attenti, perché non tutti sono autentici. C’è chi è davvero dalla tua parte e chi invece sta portando avanti un’altra agenda». Nonostante questo, Sharon Lavigne vuole parlare con tutti: «Ci era stato promesso un incontro con il Comune di Roma, è saltato e non sappiamo perché. Ma non mi fermerò: vorrei vedere papa Leone XIV, anche lui ha origini creole della Louisiana. Sento che devo raccontargli cosa sta succedendo. Credo che ascolterà».
E farsi ascoltare, per l’attivista, passa soprattutto dalla conoscenza: «Bisogna essere preparati, ogni errore può ritorcersi contro di te. Spesso la gente non sa cosa sta accadendo». Il cambiamento climatico è l’esempio perfetto: «Nella mia comunità è già una realtà, affrontiamo uragani e tornado di continuo. Molti pensano che sia sempre stato così, ma non è vero: noi cerchiamo di informarli, pubblichiamo articoli. La chiave è sempre educare». Dall’insediamento di Trump, la battaglia si è complicata: «Quando il presidente dice: “Drill, drill, drill”, tutto ciò che sentiamo è “inquina, inquina, inquina”».
Non si può avere tutto, dicono i suoi detrattori, l’aria insalubre è il prezzo da pagare per avere sviluppo e posti di lavoro. Ma è un ricatto a cui Sharon Lavigne non ha alcuna intenzione di sottostare: «Scegliere tra lavorare e morire di cancro non è un compromesso accettabile. E poi quei posti di lavoro non sono nemmeno per noi: servono all’industria per fare soldi. Alla nostra gente», ricorda l’attivista, «riservano solo le mansioni più pericolose, le aree più contaminate». Non c’è famiglia della Cancer Alley che non abbia perso un caro a causa dell’inquinamento. I benefici promessi dalle industrie non si vedono. Scuole e infrastrutture pubbliche chiudono e con l’aria insalubre si sgretola una cultura secolare: «Quando ero bambina uscivamo all’aperto e potevamo respirare. Avevamo orti e giardini, andavamo a pesca di gamberi. Ora tutto è stato contaminato. Hanno provato a vendercelo come sviluppo ma è un genocidio».
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