Opinioni
29 agosto, 2025Articoli correlati
L’Espresso si occupa da decenni della piaga dell’isola. Ancora senza soluzioni, fonte di affari per pochi
Nell’estate del 1968 il compositore Luciano Berio, che allora viveva a New York, andò ospite del barone Agnello a Siculiana, Agrigento, per lavorare a una nuova opera in tranquillità. Almeno, sperava. Perché non trovò l’acqua corrente. C’era stata fino a due anni prima, ma poi improvvisamente il presidente dell’epoca dell’Ente acquedotti aveva deciso di dirottarla alla vicina Porto Empedocle. Un gradito omaggio della prona dirigenza isolana ai portatori di progresso della Montecatini, futura Montedison. «Il governo ha permesso che un privato disponesse di un bene pubblico senza controlli di sorta. Adesso cinque paesi sono senz’acqua», scriveva Berio a L’Espresso, sapendo che il settimanale era sensibile al tema.
La sete siciliana era un tema editoriale ricorrente, la chiave per dire di un Sud tenuto alla catena di un’arretratezza da rapina più che da assenza di risorse. Cinque anni prima, nel 1963, su Niscemi, provincia di Caltanissetta, senza acqua da otto mesi, era intervenuto il direttore Arrigo Benedetti: «L’Africa è ancora in casa».
La miseria, quella raccontata sulle orme dell’impegno di Danilo Dolci, è un ricordo. La sete, no. In Sicilia, è vero, fa caldo. E l’isola può diventare un inferno, se brucia di roghi. Quasi sempre dolosi e l’autocombustione solo un’ipotesi di scuola. Ma in Sicilia piove pure, certo un po’ meno. Colpa del clima, si fa presto a dire. Il guaio è che quando accade è un disastro: la Sicilia è pure cemento selvaggio, tanto dissesto, molti proclami e inesistente cura. E se anche l’acqua del buon Dio riempisse i bacini artificiali, costruiti quando certi caporioni ingrassavano con le dighe, curandosi di autorizzarle sui terreni di cui i compari avevano fatto incetta, quel bene del Signore sarebbe perduto.
Lì mancano le opere di adduzione, che è come avere un recipiente colmo senza modo di svuotarlo, là non c’è il collaudo. In quell’altra, invece, c’è tutto. Ma ci pensa la rete a disperdere molto più della metà di quel che vi passa. È malridotta e bucata. E certi signori pescano ciò che riempie le autobotti private di quel che qualcuno, a corto di sinonimi, chiama, non a torto, «il prezioso liquido».
Solo se l’acqua non c’è, è un affare. E meno ce n’è, più il pallottoliere gira. In modi per smerciarla e in sistemi per trovarla. Nei ruggenti anni Ottanta si pensò di andare a scuola dagli israeliani per sparare alle nuvole e farla venire giù. Poi si pensò ai dissalatori, in parte rimasti ad arrugginire. Il governatore siciliano Renato Schifani, che danza con ira inconcludente di emergenza in emergenza, si è detto sicuro che con i suoi – costati tanto subito e a regime chissà – se ne avrà in abbondanza. Resta il dettaglio dei tubi bucati: il suo ex assessore Roberto Di Mauro è scivolato proprio sull’opaco appalto per il rifacimento della rete di Agrigento. Che non pare si faccia neppure l’anno prossimo.
Intanto, oggi come allora, anche quelli del ponte sullo Stretto si sono messi a cercare acqua. Lì dove i paesi se la contendono da sempre, come ha scritto Miriam Di Peri su Repubblica. Chissà che non finisca come nella storia di Luciano Berio. A cui diede seguito Mino Monicelli, il fratello di Mario, con il reportage “I faraoni dell’acqua”. E in cui si chiedeva: «C’è una violenza più insopportabile della sete?».
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