Opinioni
6 agosto, 2025Sui media Donald Trump scatena le sue ire, cortine fumogene per oscurare il caso Epstein
Dire che il re è nudo – magari mostrandone pure scherzosamente i genitali in versione cartoon come fa la sempre irriverente sitcom animata South Park – è diventato inammissibile da quando Donald Trump si è messo in testa di fare il monarca assoluto.
D’altronde, trumpismo fa rima con maccartismo, mentre l’affaire Epstein sta dando più grattacapi del previsto e, pertanto, risulta utile innalzare una sequenza di cortine fumogene in grado di fungere da diversivo. E in materia – purtroppo – non c’è che l’imbarazzo della scelta, dal commento entusiastico e maramaldesco alla chiusura del Late Show di Stephen Colbert, considerato dal tycoon alla stregua di un nemico personale, all’attacco preventivo nei confronti del successore Jimmy Kimmel, sino alle critiche violentissime nei confronti della veterana dei programmi politici televisivi Joy Bear. Dall’omaggio allo scomparso Hulk Hogan presentato come campione del movimento Maga all’approvazione alla Camera a opera del Partito repubblicano (convertito nella formazione personale di Trump) di un emendamento per intitolare alla first lady Melania il Teatro dell’Opera di Washington (ora John F. Kennedy Center for the Performing Arts).
E, ancora, Trump ha fatto rimuovere dalla delegazione per il viaggio presidenziale in Scozia il reporter del Wall Street Journal come rappresaglia per le inchieste della testata sui legami con il finanziere pedofilo Jeffrey Epstein. E, a proposito di atti tremendamente concreti, ha fatto tagliare un miliardo e 100 milioni di dollari dal bilancio della Corporation for Public Broadcasting, che ne distribuiva due terzi a tv e radio locali, accusandola di “partigianeria” e avversione verso la sua Amministrazione. Nel frattempo la Paramount, che ha giustappunto chiuso la trasmissione sgradita di Colbert e ha deciso di patteggiare nella causa per diffamazione intentata da Trump versandogli 16 milioni di dollari, ha ottenuto il via libera definitivo dalla Federal Communications Commission alla fusione (da 8 miliardi) con Skydance.
Un’avanzata senza sosta dei condizionamenti e dei ricatti da parte del potere esecutivo, che spinge l’America trumpista della direzione di un regime “in stile” Corea del Nord. I toni e le espressioni con le quali il presidente si scaglia contro i suoi cosiddetti detrattori nel mondo dei media sono in tutto e per tutto quelli di uno showman (rancoroso), e non quelli di una figura che ricopre la carica pubblica più importante del sistema istituzionale degli Stati Uniti.
Da uomo anche di spettacolo, Trump possiede un occhio attentissimo (e censorio) nei confronti di tutto quello che è show business, a ulteriore conferma di come abbia dato vita a una dimensione di spettacolarizzazione e performance politica totale che conferma la “profezia” di Neil Postman sulla nostra condizione del «divertirsi fino alla morte» (con la civiltà del confronto politico e l’educazione quali prime vittime). E a dimostrazione di come lo spettacolo politico integrale (per dirla con Guy Debord), che alimenta in modo incessante il clima di opinione della postverità, si integri con la sorveglianza e la censura old-style, contribuendo a disarticolare, una volta di più, il costituzionalismo liberale e il sistema di contrappesi su cui è stata edificata la democrazia americana.
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