Opinioni
7 agosto, 2025Mentre la stampa internazionale è esclusa da Gaza e i giornalisti palestinesi rischiano ogni giorno la vita per documentare tutto quello che sta accadendo, il quotidiano tedesco Bild attacca un fotografo locale accusandolo di propaganda
Non sappiamo se lo scatto incriminato sia costruito oppure no. E, sinceramente, non credo sia questo il punto. Non in un contesto come quello di Gaza, dove la stampa internazionale non può entrare, e dove gli unici giornalisti presenti sul campo sono giornalisti palestinesi. Eppure è quanto ha fatto il quotidiano tedesco Bild in un articolo che mette in dubbio la credibilità di un fotografo palestinese, insinuando che le sue immagini siano parte di una strategia di disinformazione, in particolare lo scatto qui pubblicato che mostra il fotografo mentre riprende una scena di distribuzione del cibo.
Giornalisti che ogni giorno rischiano e ormai troppo spesso perdono la vita per testimoniare l’orrore. In un simile scenario, accusare un fotografo di essere un “propagandista” perché documenta le conseguenze dei bombardamenti, la fame, la disperazione, appare quanto meno grottesco, miope, ma soprattutto profondamente disonesto. Un dubbio per quanto legittimo non può cancellare il lavoro di centinaia di giornalisti che tutti i giorni documentano e testimoniano la situazione sempre più drammatica nella Striscia.
Che la propaganda esista in guerra non è una novità. Esiste in tutte le direzioni, su tutti i fronti, in tutte le guerre. Ma in questo caso, l'accusa suona più come un tentativo di screditare chi prova a mostrare una realtà troppo scomoda per essere accettata. Secondo fonti mediche e umanitarie, oltre 61 mila palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’operazione militare israeliana. Decine di migliaia sono donne e bambini. Interi quartieri rasi al suolo, ospedali distrutti, ambulanze bombardate. E la fame è reale, documentata da tutte le grandi organizzazioni internazionali che ancora riescono ad accedere alla Striscia.
Chi racconta tutto questo, se non i fotografi locali? Chi può mostrarci ciò che accade, se non chi è già lì, spesso senza strumenti, senza protezioni, senza alcuna garanzia di sopravvivere al giorno successivo? Chiamarli “fotografi di propaganda” mentre si tace sulla sofisticatissima macchina della comunicazione militare israeliana è non solo scorretto e ingiusto. Questa guerra ha bisogno di occhi aperti e non dita puntate. Ma cosa si può verificare quando tutto è stato ridotto in macerie e nessuno può entrare? Non c’è nulla di più pericoloso, in tempi di guerra, che scegliere di non vedere. Chi fotografa la fame non la inventa: la subisce, la respira, la vive. È ora che anche i media occidentali inizino a guardare più in là del proprio pregiudizio, e più vicino alla realtà. Accusare chi fotografa la fame e la morte, significa legittimare il silenzio. E il silenzio, quando copre i crimini, è esso stesso una forma di complicità.
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