Opinioni
18 settembre, 2025Basta introdurre un’aggravante nel Codice e sostituire uomo con persona e non l’ergastolo per legge
L’8 marzo, data scelta per un tributo retorico alle donne, il governo aveva presentato un disegno di legge per la codificazione secca del femminicidio con la previsione automatica della pena dell’ergastolo e giustamente Milli Virgilio lo definì una polpetta avvelenata.
Di fronte a un coro di obiezioni e critiche di giuristi e di pensatrici femministe è stata scelta la strada del confronto attraverso audizioni ed emendamenti e così è stato approvato un testo all’unanimità da parte del Senato il 23 luglio e che ora sarà esaminato dalla Camera dei deputati (atto n. 2528) con il titolo “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”.
Si sarebbe potuto optare per l’inserimento di una circostante aggravante all’art. 577 del Codice penale che avrebbe previsto la pena dell’ergastolo, si è invece preferito la norma manifesto e la pena perpetua, che ha come precedente l’art. 276, l’attentato contro il Presidente della Repubblica nel Capo dei delitti contro la personalità dello Stato: un esempio dell’impostazione autoritaria del Codice Rocco.
Bene ha fatto la senatrice Cecilia D’Elia nella discussione a ricordare un pensiero di Grazia Zuffa tratto dal saggio “Uomini che uccidono le donne: né mostri né matti”, pubblicato nella rivista “Il vaso di Pandora”, dedicato al femminicidio, che metteva in guardia dal populismo penale.
Diceva Zuffa, segnalando anche una possibile contraddizione, a rigor di logica femminista: «Il femminicidio è parte della cultura patriarcale, in un continuum di subordinazione della donna fino alla sopraffazione violenta e, all’estremo limite, alla sua uccisione. In questo senso, il femminicida non è un “mostro”, anzi incarna la “normalità” del Male dell’oppressione femminile da combattere politicamente, verso il riequilibrio di potere fra i sessi: e, tuttavia, “mostro” lo diventa lo stesso, per la forza della logica del penale. Sia perché il penale deve identificare in maniera rigorosa il reato, con ciò marcando una linea netta fra legalità/normalità e illegalità come anormalità (da cui la tendenza intrinseca alla “mostrificazione” del criminale); sia perché il “femminismo punitivo” ci mette il suo carico, poiché vede nel femminicida il simbolo (odioso) della cultura patriarcale di violenza del maschio sulla femmina: ambedue da mettere al bando».
Nel caso di una uccisione di una donna fuori dai casi descritti dal nuovo articolo 577bis (atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come controllo o possesso o dominio o in relazione al rifiuto della donna a instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come limitazione delle libertà individuali), si applica l’articolo 575, sull’omicidio che recita così: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno». È accettabile che per la morte di una donna si faccia riferimento a quella di un uomo? Ricordiamo che la violenza sessuale era classificata “contro la morale” e non “contro la persona”. Il Codice penale mostra una pretesa di “neutralità di genere” e questa occasione di rivendicazione di una ottica di genere deve imporre almeno la sostituzione di “uomo” con “persona”, superando l’eguaglianza formale e ipocrita di una universalità maschile.
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