Opinioni
4 settembre, 2025Articoli correlati
A nove anni dal sisma, le Marche aspettano risposte. In campagna elettorale, però, si grida al miracolo
Diversi anni fa, in uno degli anniversari del terremoto del 2016, apparve uno striscione sulle rovine di uno dei paesi sbriciolati delle Marche. C’era scritto: «Unico commissario, la Sibilla». Purtroppo, il commissario è Guido Castelli, figura di punta della campagna elettorale di Fratelli d’Italia a cui si tributano cittadinanze onorarie (San Severino Marche) e a cui è stato attribuito in questi giorni il Premio Sibilla. Con la “i” semplice. Perché quasi contemporaneamente, ad Ascoli, è stato assegnato il Premio Sibylla, con la “y”, che è andato alla ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella. La differenza sta qui: il primo è voluto dall’Unione Montana dei Monti Azzurri, che «promuove le eccellenze del territorio». Il secondo si deve al Festival dell’aria/ControVento, diretto dal poeta Davide Rondoni, già nominato direttore del museo della fotografia di Biella, e viene assegnato a «una personalità capace di rappresentare, con il proprio impegno culturale e sociale, la forza e la visione che richiamano il mito della Sibilla».
Ora, la Sibilla appenninica è una figura non semplice: intanto, è l’unica sibilla che non si è limitata a profetizzare l’avvento di Cristo e la fine dei tempi, ma ha una propria dimora dove riceve cavalieri erranti e re. Non per sedurli, come si narra nei poemi a firma maschile, ma per insegnare loro la conoscenza. Inoltre, come diceva Joyce Lussu, celebrata da Silvia Ballestra nel bel libro “La Sibilla”, è colei che ha distribuito il sapere delle erbe e dell’agricoltura nel territorio. E ha un bel caratterino, e lo testimoniano le leggende sulla distruzione di un intero paese reo di non averla onorata. Dunque, avvicinare Castelli e Roccella alla Signora dei Sibillini è come sostenere che l’amministratore del terrificante gruppo Facebook “Mia moglie” è un lettore di Carla Lonzi, ma in campagna elettorale si fa questo e altro.
Intanto, a nove anni dal sisma, siamo parecchio indietro, nonostante le parole trionfali della premier: basta visitare i luoghi per constatarlo; la sola provincia di Macerata conta ancora oltre novemila sfollati, per non parlare di Visso che è ormai un conglomerato di casette di legno. Non importa, siamo in campagna elettorale e si ricorre a ogni risorsa, dai ministri in visita ai fondi (oltre un milione di euro) spesi per comunicare la ricostruzione. Il problema è che, come al solito, dal fronte della sinistra, o centrosinistra che dir si voglia, si insiste nel farsi del male: come avviene a Fabriano, dove la sindaca, nello stesso giorno dello sgombero del Leoncavallo, richiede indietro le chiavi di una realtà viva e amatissima come il Lab Sociale Fabbri, un luogo dove due generazioni hanno sopperito all’assenza di iniziative culturali e relazioni sociali, animando uno stabile abbandonato ottenuto in comodato d’uso e che si rivuole per imprecisata destinazione.
Per questo, la cosa preziosa di oggi è “I quattro che predissero la fine del mondo” di Abel Quentin, che esce per e/o nella traduzione di Giuseppe Giovanni Allegri: la storia, vera, è quella dei quattro scienziati che nel 1972 pubblicarono il “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, dove si dimostrava che, se la traiettoria dello sviluppo mondiale non fosse cambiata, da lì a poco avremmo raggiunto il collasso. Non è cambiata e come si vede si predilige l’evento ai fatti: quello che è cambiato, e gli scienziati non potevano saperlo, è che siamo passati dall’«io so, ma non ho le prove» di Pier Paolo Pasolini all’«io so, ma non mi interessa» della gran parte dei cittadini e delle cittadine di questo Paese.
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