Opinioni
9 settembre, 2025Il centrodestra pensa ad abolire i seggi uninominali. E a sinistra c’è chi potrebbe trovarlo conveniente
Il premierato segna il passo: l’esame della riforma riprenderà a settembre, ma bisognerà ripartire da zero, modificando il testo già votato dal Senato, per precisare che il premio di coalizione non dovrà “garantire” ma solo “favorire” una maggioranza parlamentare al premier eletto, visto che nessuno dei partiti di governo è favorevole a un secondo turno di ballottaggio.
Nel frattempo, il centrodestra torna sul suo passatempo preferito: cucirsi addosso una nuova legge elettorale. Questa volta l’idea è un premio in seggi alla coalizione vincente, purché superi il 40 per cento e indichi un candidato premier in scheda. Ma la vera mossa di Meloni è un’altra: abolire i collegi uninominali e tornare al proporzionale.
Gianfranco Rotondi, vecchia volpe democristiana, ne ha spiegato la ragione: l’attuale legge elettorale fu scritta da Renzi, d’accordo con Berlusconi, con l’obiettivo di non produrre nessun risultato netto «e determinare la necessità di un governo di coalizione». In effetti oggi, per avere la maggioranza, una coalizione deve dominare sia nel proporzionale sia nei collegi. Operazione quasi impossibile. Tre anni fa il centrodestra ci riuscì perché le opposizioni correvano divise in tre tronconi. Ma contro un “campo largo” la musica cambierebbe. Dunque togliamo i collegi uninominali, dice il centrodestra. Sarebbe un cambiamento importante, perché riguarderebbe 147 seggi su 400 alla Camera e 74 su 200 al Senato. Intendiamoci: così come sono, i nostri collegi uninominali non somigliano affatto a quelli utilizzati in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati Uniti (quanti italiani saprebbero dire chi è il deputato o il senatore del suo collegio?) perché basati su aree troppo vaste. Ma eliminando questo metodo si tornerebbe al proporzionale con le preferenze, simile a quello in vigore fino al 1994. E si accentuerebbe il potere dei singoli partiti, la cui forza sarebbe misurata dal consenso raccolto dai loro candidati, senza il paracadute degli accordi di collegio a tavolino (grazie al quale, per dire, oggi la Lega con l’8 per cento dei voti ha il 16 per cento dei deputati). Uniti dall’indicazione del candidato premier, i partiti correrebbero dunque ciascuno per conto suo.
È una novità che potrebbe risultare interessante anche nel centrosinistra, soprattutto per il Movimento 5 Stelle, il quale eviterebbe la problematica necessità di trovare candidati comuni in ogni collegio (e potrebbe condizionare la sua adesione alla coalizione alla scelta di Giuseppe Conte come candidato premier). Può darsi che tutto questo vada bene anche a Elly Schlein, perché renderebbe più agevole la strada per il “campo largo”. Ma per il Partito democratico una simile scelta significherebbe non solo rinunciare alla “vocazione maggioritaria” che 18 anni fa segnò la sua nascita, ma anche il ritorno al sistema elettorale della Prima Repubblica, che gli italiani demolirono con i due referendum Segni del 1991 e del 1993, con la rinuncia definitiva all’idea di un rapporto diretto tra il parlamentare e il suo collegio, già sostituito da quello tra i nominati e i loro partiti (che difficilmente scomparirà: nessun leader vuole rinunciare al potere di scegliere i suoi parlamentari).
Dietro una scelta solo apparentemente tecnica si nasconde dunque un dilemma sul destino del principale partito del centrosinistra (e su quello della democrazia italiana).
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