L’errore di Carlo Azeglio Ciampi sul Porcellum ci ricorda perché serve un politico al Quirinale

Alla fine del 2005 non fu rinviata alle Camere la nuova legge elettorale che, in seguito, fu cancellata dalla Corte ma intanto portò a neutralizzare la vittoria del centrosinistra

Il Presidente della Repubblica è attore politico per definizione: il possesso di cultura esperienza abilità politiche dovrebbe essere considerato requisito essenziale non solo per accedere alla carica ma anche per esercitare le funzioni nel modo più pieno e conseguente.

 

Quando la temperie politica esige la massima garanzia costituzionale, gli interventi presidenziali possono essere decisivi. Molte volte lo sono stati, condivisi o meno. Decisive sono state anche alcune omissioni.

 

Una di queste fu il mancato rinvio alle Camere della legge elettorale alla fine del 2005. Quel tornante è stato tra i più determinanti sull’assetto del sistema politico e istituzionale, con effetti disastrosi. Allora, una legge elettorale non perfetta, la legge Mattarella, era tuttavia il risultato, seppure sapientemente adattato, di un vasto moto d’opinione che, a mezzo di un referendum popolare, aveva prodotto una buona formula, mai abbastanza rimpianta. Tre quarti dei parlamentari eletti con metodo maggioritario, tutti i senatori e il settantacinque per cento dei deputati in collegi uninominali a dimensione abbastanza contenuta da favorire la conoscenza dei candidati e degli eletti. Solo un quarto dei deputati eletto con metodo proporzionale da liste bloccate. La legge era stata applicata tre volte, nel 1994, nel ’96 e nel 2001, con un rendimento complessivamente soddisfacente, in un contesto orientato alla competizione tra due blocchi politici, dopo l’esordio di assestamento del ’94. Ma alla vigilia delle elezioni previste per il 2006, la maggioranza parlamentare escogita e approva una nuova legge elettorale: per la Camera il proporzionale su liste bloccate e con un premio in seggi che assicurava la maggioranza assoluta senza alcun requisito di consenso minimo, se non la maggioranza relativa dei voti; al Senato, lo stesso sistema replicato regione per regione.

 

Non più collegi uninominali, né voto di preferenza, un premio di maggioranza potenzialmente abnorme alla Camera (così, in effetti, nel 2013), erratico e in opposizione a ogni esigenza di governabilità in Senato, con i premi regionali indipendenti l’uno dall’altro ma destinati a confluire in una assemblea che accorda e revoca la fiducia al governo della nazione. Ebbene, quale fu il ruolo della Presidenza della Repubblica in quel frangente del 2005?

 

Fu svolta un’opera informale di persuasione, durante i lavori parlamentari, che intendeva in particolare preservare la base regionale di elezione per il Senato, a costo di dover vedere trasformato il premio di maggioranza nazionale in una moltitudine di premi regionali: un’azione improvvida nel merito e incauta nel metodo, perché coinvolse il Quirinale, suo malgrado, in uno dei difetti più gravi della legge e pregiudicò la possibilità di esercitare la prerogativa presidenziale più importante nel procedimento legislativo, quella del rinvio alle Camere. La Corte costituzionale, tre elezioni e otto anni dopo, avrebbe annullato quella legge elettorale, sia per la distorsione nella rappresentanza, generata dal premio di maggioranza senza limite minimo di consenso, sia per i premi regionali al Senato, erratici e perciò irragionevoli, sia per la cesura tra elettori ed eletti, data dal voto di lista bloccato, senza preferenze, che aveva sostituto i collegi uninominali.

 

Un sistema elettorale illegittimo ottenne subito lo scopo politico che si era prefisso, neutralizzare la prevedibile vittoria elettorale degli avversari nel 2006, produsse il parlamento dei nominati e alimentò il distacco tra popolo e assemblee legislative. I guasti sono stati permanenti e irreversibili: l’agire politico si è involuto in una crisi profonda, succube di una polemica antiparlamentare distruttiva e incoraggiata dall’ignavia degli stessi membri delle Camere, in quanto nominati dai leader di partito invece che scelti (anche) dagli elettori.

 

Dunque, quel frangente del dicembre 2005. Il rinvio alle Camere della legge avrebbe impedito lo scempio, sarebbe stata quasi impossibile - per i tempi e le circostanze - una nuova deliberazione a dispetto di un rifiuto motivato. Sarebbe stato un trauma momentaneo ma una profilassi formidabile per la salute della democrazia italiana. Era Presidente uno degli uomini più illustri della storia repubblicana, autorevole e degnissimo, ma non - per biografia né per vocazione - totus politicus, il solo carattere che lo avrebbe indotto a compiere quell’atto risolutivo. Politik als Beruf.

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