
I derivati sono quei prodotti finanziari ad alto rischio che già prima della crisi avevano mandato in rovina migliaia di aziende, minando anche i conti dello Stato e di numerosi enti pubblici. In teoria hanno finalità assicurative: dovrebbero aiutare i clienti a non perdere troppi soldi, ad esempio, con le valute estere o con i tassi variabili. In pratica i derivati somigliano a scommesse. E il problema è che le vincono quasi sempre le banche.
A Bari, dal 2007, è in corso la più grande causa di risarcimento intentata da un’azienda privata, l’ex fabbrica Divania, che prima di fallire dava lavoro a 430 operai. La società, ora rappresentata dal curatore, chiede ben 280 milioni di euro a Unicredit, che invece respinge l’accusa di aver provocato il crac con derivati disastrosi.
Il proprietario della fabbrica di divani, Saverio Parisi, aveva denunciato anche penalmente i vertici dell’istituto, dopo aver videoregistrato di nascosto i suoi incontri con i banchieri: una vicenda rivelata da “l’Espresso” già nel 2009. Da allora il pm Isabella Ginefra ha chiuso le indagini penali confermando le accuse a Unicredit di aver mandato in bancarotta quell’industria, imponendole derivati truffaldini o addirittura falsificati. Nel parallelo processo civile, invece, una super perizia sembrava scagionare la banca. Divania non è fallita per colpa dei derivati, ma può reclamare una decina di milioni al massimo, e solo se i giudici riterranno ingiusta questa perdita: così sentenziarono i due esperti nominati dal tribunale all’inizio della causa.
Ora però i tre giudici del collegio civile sono cambiati. E con un’ordinanza del 18 febbraio scorso hanno ribaltato tutto, spiegando che «sono emersi dubbi sull’attendibilità e genuinità della perizia», firmata dal commercialista Alfredo D’Innella e dall’avvocato e docente universitario Umberto Morera, «con riferimento ai compensi pagati da Unicredit al di fuori da una liquidazione giudiziaria». La banca, in sostanza, ha versato ai due periti ben 470 mila euro senza che nessun giudice abbia mai approvato una parcella del genere. Morera, inoltre, è risultato difensore di Unicredit in altre cause, negli stessi mesi in cui faceva il perito imparziale a Bari. Di qui la drastica decisione dei nuovi giudici: la perizia è totalmente da rifare; a esaminare i derivati sarà un nuovo esperto indipendente da Unicredit; e la Procura dovrà indagare su quei 470 mila euro versati ai due “arbitri” ora esautorati. L’accusa di presunta corruzione nasce anche da una lettera in cui la banca dichiara di accettare la parcella chiesta dai periti, pur riconoscendo che è molto superiore alle «tariffe massime previste dalla legge».
Interpellata da “l’Espresso”, Unicredit fa sapere che dimostrerà la sua innocenza anche rispetto alle nuove accuse. La banca sottolinea che il professor Morera difendeva il gruppo Capitalia già da prima della fusione con Unicredit, cosa che lui stesso aveva segnalato al tribunale prima della perizia. L’istituto inoltre precisa che anche il proprietario di Divania aveva accettato di versare ai periti un minimo di 142 mila euro ciascuno, cioè più delle normali tariffe. In attesa che i tribunali stabiliscano chi ha ragione, il caso Divania solleva un problema generale: chi decide le parcelle dei periti che arbitrano i processi? I giudici imparziali o le parti private che pagano?