«Lo scrittore è al microfono di una radio. L’intervistatore non ha nessuna intenzione di metterlo a proprio agio: «È davvero un romanzo?», domanda. L’autore risponde: «Rivendico il termine romanzo». L’intervistatore insiste: «È autofiction!». Il povero scrittore si difende, dice di conoscere bene quel termine, ma non sa cosa significa di preciso. L’intervistatore non recede: «Il narratore si chiama come te, è un romanziere, abita nel tuo stesso quartiere.
E chi ti conosce un po’, riconosce alcune figure della tua vita». «È più complesso di così», cerca di cavarsela lo scrittore.
In una scena di due minuti, il regista francese Olivier Assayas riassume vent’anni di dibattito sulla cosiddetta “autofiction”. Nel suo nuovo, intelligentissimo film, “Il gioco delle coppie” (titolo italiano per il più preciso “Doubles vies”), in sala da qualche giorno, si parla di mondo editoriale, di trasformazione digitale, di vecchi e nuovi schemi in conflitto. E dell’eterno rapporto fra vissuto e scrittura. L’amante, a un certo punto, vieterà allo scrittore in questione di scrivere un libro sulla loro storia: «Se lo farai, non ti perdonerò». La scrittura autobiografica è violenta? «La vita degli altri ha un valore» protesta, ancora nel film di Assayas, un lettore seduto nel pubblico di una presentazione. Non se ne esce. E in un’epoca tanto nervosa e ossessionata dal concetto di verità, lo scrittore rischia di essere inchiodato sgarbatamente alle proprie responsabilità. Senza nessuna attenuante per il valore artistico.
Sarà per questo che, negli ultimi mesi, in molte opere letterarie e cinematografiche si affacciano dubbi, obiezioni, ansiose istanze processuali (e auto-processuali) sulla legittimità della scrittura autobiografica?
Tesoro, mi si è rotta l’autofiction! Mentre Alfonso Cuarón fa splendere nel bianco e nero di “Roma” la sua infanzia in un quartiere di Città del Messico, una firma del “New Yorker” gli chiede se è sicuro di aver raccontato davvero con giustizia la sua tata di allora. Non l’avrà invece trasformata nello stereotipo del povero visto da un bambino cresciuto della middle-class? Dibattito aperto.
Nell’ultimo film di Roman Polanski, uscito in Italia l’anno scorso, “Quello che non so di lei”, vengono portate sullo schermo le angosce della scrittrice francese Delphine de Vigan, dopo aver scritto una storia vera: «Mai avrei immaginato che l’impatto sui miei familiari e sulle persone che avevo attorno si sarebbe propagato a ondate. Non avevo previsto i danni collaterali del libro che avevo scritto». Così confessa in “Da una storia vera”, che ha ispirato Polanski. E ancora: uno dei romanzi più recensiti e discussi del 2018, l’affascinante “Asimmetria” dell’americana Lisa Halliday (tutti a chiedersi se il vecchio scrittore protagonista che seduce una ragazza fosse o non fosse Philip Roth) si chiude con una tirata del vecchio scrittore di cui sopra sulla definizione di “autobiografico”. «Sarebbe sbagliato – dice – impelagarmi nell’inutile tentativo di separare la “verità” dalla “finzione”, come se queste categorie il romanziere non le scartasse fin dall’inizio e per dei buoni motivi». Il vero Roth, in uno dei suoi pochissimi libri esplicitamente autobiografici, “I fatti”, trent’anni fa accettava di farsi fare le pulci da uno dei suoi stranoti alter ego, Zuckerman: «Nella fiction puoi essere molto più sincero senza doverti continuamente preoccupare di fare del male a qualcuno. Qui tu cerchi di spacciare per franchezza quella che a me pare la danza dei sette veli: quello che finisce sulla pagina è una specie di codice per ciò che manca». Non se ne esce.
In una vignetta di Tom Gauld (nel geniale “In cucina con Kafka”, Mondadori) uno scrittore si trova all’ingresso di un labirinto: «Riesci a far arrivare l’autore di memoir al premio letterario schivando amici e parenti furiosi?». Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore campione di autofiction – intervistato a proposito dell’ultimo romanzo, “L’animale che mi porto dentro” (Einaudi) – risponde a Simonetta Fiori su “Repubblica”: «Quella del romanzo non è mia moglie, è la moglie letteraria». Più coraggiosa, mezzo secolo prima, Lalla Romano. Nel 1969 vinceva il Premio Strega con un libro straordinario e spietato, “Le parole tra noi leggere”: il tentativo di una madre di capire suo figlio scrivendone. Quel figlio non gradì, e chiuse i rapporti con la madre. Romano, interrogata sulla questione, spiegò che, se pure avesse intravisto le conseguenze di quel libro, non avrebbe comunque rinunciato a scriverlo: «Scrivere è la mia maniera di essere». Durissimo ma chiaro. E senza sorrisetti. Senza alibi.
Oggi, forse, le obiezioni sarebbero più pesanti che allora. Ma Lalla Romano non avrebbe mai chiamato autofiction il suo ininterrotto scavo nella memoria. Né accetta di definirlo così Annie Ernaux, che somiglia all’italiana nella spietatezza. In una intervista del 2005, Ernaux ha chiarito una volta per tutte la propria estraneità alla moda, prole sue, dell’autofiction: «Negli anni Ottanta la parola autobiografia era diventata diffamatoria, quindi era meglio parlare di autofiction. Era più chic». Forse anche più comodo? Ernaux chiamava in causa il collega Serge Doubrovsky, a cui si deve il conio dell’etichetta “autofiction”: «Ha proseguito su quella linea con grande perseveranza. In un certo senso, tutti i suoi libri si assomigliano». Lei, nelle pagine di “La vergogna” – libro del ’97 appena recuperato da L’Orma – brutalmente scrive: «Prendete e leggete, questo è il mio corpo e il mio sangue offerto in sacrificio per voi».
Rimetterci la pelle. Buttarsi nell’arena senza calcolare il rischio. È così che bisogna scrivere quando si scrive di sé? In un piccolo libro in uscita per le edizioni della Scuola Omero (“Scrivere è amare di nuovo”), Rossana Campo indica il valore terapeutico dell’autobiografia, ma precisa che può attivarsi solo a patto di una messa in gioco totale. Niente prudenze: «Se riuscite a dire la verità sulla vostra vita, sarà liberatorio, sarà incoraggiante, darà potere a voi e a chi vi legge».
E se fosse arrivato il momento di sbarazzarci definitivamente della categoria di autofiction? Quintali di discussioni (anche italiane) in proposito, nell’ultimo ventennio, hanno avuto come dominante un tratto ludico, divertito: sono io ma non sono io, il personaggio si chiama come me però è uno scherzo, credetemi ma non credetemi fino in fondo; e un insopportabile, infantile compiacimento nel giocare a nascondino. Uno studioso classe ’89, Lorenzo Marchese, in un saggio di qualche anno fa, “L’io possibile” (Transeuropa), aveva già rilevato un «logoramento irreversibile dell’autore-personaggio»: «Dopo avere “divampato” e colpito il lettore con il suo carattere originale di esibizionismo e iperletterarietà, l’autofiction rappresenta il più delle volte un tentativo a esaurimento programmato». Walter Siti, nell’ultimo, acidissimo libro, “Bontà” (Einaudi), ha mandato in pensione il personaggio “Walter Siti”. E uno come Aldo Busi, che qualcuno ha incautamente ascritto al genere, ha tagliato corto: «Perché vede, cara la mia dottoranda tirolese, non esiste l’autofiction negli scrittori veri, esiste solo l’autofiction dei non lettori».
Non può essere un caso che lo scrittore spagnolo Manuel Vilas, intervistato sul nuovo romanzo, “Ordesa” – accolto in patria trionfalmente e in arrivo da noi per Guanda a fine gennaio, tradotto da Bruno Arpaia, con il titolo “In tutto c’è stata bellezza” – abbia chiarito: «Non è autofiction. Ho fatto autofiction in altri libri, però adesso non mi interessa per niente». E allora che cosa sono queste quattrocento pagine di affondo in mezzo secolo di vita personale, di corpo a corpo con i fantasmi dei genitori? Una confessione, una memoria, uno sfogo? Sicuramente non un gioco, non una farsa. È come se Vilas provasse a buttare via ogni trucco, a sbarazzarsi del paravento, «affrontare la verità personale» senza travestimenti. Un’assunzione di responsabilità, «un desiderio di staccarsi dall’io virtuale creato» e dire di nuovo “io”, ma nel modo più disarmato possibile, più faticoso, più totale. Non c’è mezza riga di compiacimento, non c’è il dare di gomito al lettore per chiamarlo in correità (come fa, mettiamo, Piccolo con i lettori maschi del suo libro). Ho avuto la sensazione, leggendo, che Vilas procedesse in direzione diametralmente opposta al fiume di autofiction che gli scrittori degli anni Zero non avrebbero potuto immaginare all’orizzonte. La più selvaggia, filtrata, comodissima, e per l’appunto ludica, autofiction contemporanea: quella di Instagram, quella dei social. Là, minuto dopo minuto, giochiamo con il nostro io vero-falso. Forse per questo l’esibizionismo giocoso e in maschera, o mascherina, non dice più molto. Perché è sovrabbondante fuori dai libri. L’era che Martin Amis, già nel 2000, definiva «della loquacità di massa» è sempre più loquace. Il vero scrittore può starsene seduto comodamente sul proprio io di carta (o di facciata)? Mah.
E se da una parte imperversa la tenera e disperata autofiction di chiunque, dall’altra c’è il “presepe Netflix”.
Avete presente? L’acutissima pubblicità natalizia mostrava, in forma di statuine, i personaggi più appassionanti e riconoscibili delle serie tv. Lo scrittore, che non può competere, come può cavarsela? Come Vilas, forse. Che oppone ai post social un solidissimo e fluviale congegno narrativo che non lascia fiato, e lo spinge verso la rarefazione della poesia. O come Rachel Cusk: dopo diverse opere di carattere autobiografico, sposta i limiti della scrittura del vissuto, la reinventa in “Resoconto” (Einaudi), lasciando letteralmente sparire il corpo del narratore. Ritrae se stessa, lasciando parlare gli altri: “autobiografie altrui”.
Ancora: come Alexander Masters, che racconta di avere recuperato da un cassonetto 148 diari di un autore ignoto; li riporta alla luce, e ha l’occasione per interrogarsi – in modo commovente – su cosa davvero significhi dire “io” (“Una vita scartata”, il Saggiatore). E infine, come Tommaso Pincio: trova in Caravaggio, nella sua cupa esistenza, il soggetto per un ritratto che necessariamente diventa un autoritratto. L’uomo che dice “io” è imprigionato, per cause oscure; e se questa prigione, gli «odiati muri», fossero proprio la forma autofiction, la «maledizione di dover raccontare» se stessi? Pincio forza le sbarre, sfascia il gioco/giocattolo dell’autofiction mentre lo sta usando, lo rompe davanti agli occhi del lettore. Le pagine più spiazzanti sono quelle in cui l’autore confessa insofferenza per l’io virtuale che ha fin lì assecondato. Interrompe «il monologo del suo falso specchio». Prova a non “aggiustare” i fatti, a non inquinare le prove sulla scena del crimine dell’esistenza. Non è sicuro di riuscirci, o forse è sicuro di fallire, ma proprio per questo ci prova. E così arriva al cuore del bellissimo titolo, “Il dono di saper vivere” (Einaudi) – mostrando quanto sia scottante e pericoloso quel dono, quando consiste nell’usare la narrazione di sé «come strumento di persuasione». «Sotto molti aspetti – scrive Pincio – è la malattia del nostro tempo». Chiedendosi se è possibile guarire dal morbo dell’impostura, della recita permanente, forse è già guarito. O non è mai stato malato.