
CHE FAI, MI CACCI?
Che il tema sia spinoso e la situazione tutt’altro che semplice lo dimostra tuttavia la vaghezza assoluta che circonda l’argomento. Al punto che neppure lo Stato ha una visione esatta del fenomeno. Secondo la Ragioneria generale nel 2013 sono stati 620 i dipendenti pubblici licenziati, mentre al ministero della Semplificazione ne sono stati comunicati molti meno: 220. Altrettanto impossibile è sapere con esattezza quanti sono stati i reintegri a seguito di sentenze dei giudici, perché il dato a livello aggregato non viene monitorato. Meno incertezza c’è invece sui procedimenti disciplinari, censiti unicamente dall’Ispettorato della Funzione pubblica: quasi 7mila, conclusi per lo più con sanzioni minori (multe, rimproveri verbali o scritti) ma non di rado con la sospensione dal servizio, la punizione più grave prima della perdita del posto, che a seconda della gravità dell’illecito può arrivare fino a sei mesi.
“L’Espresso” ha ricostruito i profili di chi ha perso il posto e non mancano le sorprese. A cominciare dai 16 insegnanti di religione alle medie, ai quali vanno sommati 28 dipendenti delle agenzie fiscali, 15 medici del Servizio sanitario nazionale e così via. Un panorama variegato, che comprende pure qualche dirigente: 26 in tutto, dalla Regione Toscana all’Ater di Gorizia, dall’università di Siena alla Provincia di Monza, dove i manager mandati a casa sono stati addirittura due.
Numeri infinitesimali, rispetto ai tre milioni e 233 mila impiegati statali: i licenziamenti ammontano allo 0,02 per cento. Uno statale ogni 5 mila. Tutt’altra storia rispetto al settore privato. Ma sono la prova che gli strumenti per punire l’improduttività e aggredire furbizie, lassismo e assenteismo ci sarebbero. A volerli utilizzare.
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UNO STATO QUASI PERFETTO
A confermare che finora non sia affatto così è il governo stesso, visto che nel disegno di legge delega sulla Pubblica amministrazione punta a «rendere concreto l’esercizio dell’azione disciplinare». Parole che suonano come un’implicita ammissione: le norme ci sono ma non vengono utilizzate. D’altronde, che la situazione si stia avvitando lo dicono i numeri. Un paio di anni fa per concludere un procedimento sanzionatorio ci volevano in media 78 giorni e nei settori più lenti non si superava il semestre. Oggi di giorni ne servono 102, con punte di oltre sette mesi. A dimostrazione che la riforma Brunetta, annunciata dal suo promotore come una rivoluzione copernicana in grado di risolvere tutti i mali, ha introdotto una serie di adempimenti formali che hanno intaccato assai limitatamente vizi e pigrizie della macchina statale.
Eppure, a leggere le relazioni che gli uffici devono stilare sulla base dell’attività svolta, si direbbe che il comparto pubblico in Italia è composto da un esercito di indefessi stakanovisti tali da assicurare un’efficienza teutonica. Ministeri ed enti parco dichiarano un tasso di raggiungimento degli «obiettivi strategici» del 97 per cento e gli enti previdenziali fanno ancora meglio, rasentando la perfezione: il 99 per cento.
Una scrupolosità che stride col senso comune. Anche perché spesso questi traguardi non sono vette così ardue da scalare. Il ministero dell’Istruzione, ad esempio, si è fissato quello di garantire il funzionamento degli uffici regionali in modo da «assicurare l’ordinato avvio dell’anno scolastico». Non dovrebbe essere scontato? Idem alle Politiche agricole, dove in tempi di tagli è ritenuto un grande risultato farsi bastare i soldi. Ovvero ripartire i fondi «per assicurare il livello minimo dei servizi in presenza di insufficienti stanziamenti». Nemmeno questo un obiettivo improbo, ma ritenuto comunque strategico. E così via di questo passo, dalla «definizione di una mappa dei servizi erogati» (Croce rossa) alla generica «valorizzazione del personale» (ministero dei Trasporti). Fino al vaghissimo proposito di «conseguire economie strutturali» che si è prefissato l’Inail. Tutti traguardi, ça va sans dire, raggiunti al 100 per cento.
BONUS PER TUTTI
In realtà questo non è affatto un buon motivo per essere ottimisti. Tutt’altro, secondo l’Autorità nazionale anticorruzione: «Gli straordinari risultati positivi appaiono irrealistici ed in contrasto con la percezione dei cittadini» si legge nell’ultima relazione sulla performance della pubblica amministrazione: «È evidente il “cortocircuito logico” tra le difficoltà del contesto, la riduzione delle risorse disponibili, le criticità organizzative e, a dispetto di tutto ciò, la capacità di conseguimento brillante degli obiettivi strategici».
E i protagonisti di questo apparente miracolo sono ovviamente i capi, che riescono quasi sempre a ottenere il punteggio massimo: «Appare preoccupante che, nella gran parte dei casi in cui è applicata, la valutazione dei dirigenti di prima e seconda fascia registri una significativa concentrazione nella classe più alta: la quasi totalità ha conseguito una valutazione non inferiore al 90 per cento del livello massimo atteso». Un po’ come se la totalità degli alunni italiani, da Torino a Palermo, avesse una pagella con una sfilza di nove, a prescindere dall’impegno dimostrato durante l’anno scolastico. Tutti diligenti sgobboni?
Fra l’altro questa manica larga non è priva di conseguenze sul piano pratico. Al contrario, è determinante per incassare la cosiddetta “retribuzione di risultato”, una sorta di premio produttività annuale che è ormai una realtà in tutta Europa: diffusa quasi ovunque, negli ultimi anni è stato introdotta anche in Bulgaria, Lussemburgo, Portogallo e Slovacchia, mentre a Cipro ci stanno pensando. L’incentivo economico doveva essere una delle leve per innescare l’efficienza. Solo che, proprio grazie a una valutazione assai generosa, è diventato un bonus erogato indiscriminatamente a tutti. E nemmeno di così poco conto, visto che si aggira intorno al 20 per cento dello stipendio. Tradotto in cifre, circa 20-30 mila euro l’anno, a seconda del livello ricoperto.
Insomma, per assurdo che possa apparire, i soldi a disposizione diminuiscono, da anni il ricambio del personale è fermo, eppure i manager riescono a centrare tutti i target. E a volte ci riescono anche quando non ce ne sono. A Matera, per esempio, alcuni funzionari e amministratori sono stati condannati dalla Corte dei conti per aver liquidato 18 mila euro di bonus ai dirigenti del Comune: nulla di male, se prima avessero almeno assegnato loro qualche obiettivo.
CONTROLLATO O CONTROLLORE?
«C’è una forte resistenza e diffidenza verso il nuovo, ma c’è soprattutto grande difficoltà nel fare buona valutazione, un concetto già alla base della riforma Bassanini, con lo scopo di inoculare cultura della leadership dirigenziale e capacità di far squadra, ma che spesso non è stato riempito di contenuti come si doveva» spiega Gabriella Nicosia, docente di Diritto del lavoro all’università di Catania ed esperta di dirigenza pubblica. «Così, grazie anche a modelli di misurazione della performance e sistemi di rilevazione poco efficaci, ancora oggi ci sono ampi margini di inadeguatezza nell’attribuzione delle retribuzioni di risultato ai dirigenti».
Il problema è che le conseguenze sono a cascata. Perché un capo che sa di non rischiare nulla e di poter contare con certezza sul bonus sarà portato a preferire la tranquillità del quieto vivere piuttosto che contestare lo scarso rendimento dei suoi sottoposti. Bacchetta non a caso la Corte dei Conti nell’ultimo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, dove un intero capitolo è dedicato ai «nodi irrisolti della dirigenza pubblica»: «A fronte di una sostenuta dinamica retributiva non è mai entrato a regime un idoneo sistema di valutazione della capacità manageriale, presupposto per la corresponsione della cosiddetta retribuzione di risultato».
Si dirà: ma non c’è nessuno che verifica? Certo che c’è. A validare le relazioni sulle performance e proporre l’attribuzione dei premi ai dirigenti sono gli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv). Solo che non sempre l’indipendenza vantata nel nome trova corrispondenza nei fatti. Chi nomina infatti (e quindi retribuisce) i componenti? L’apparato politico, ovvero quello che impartisce le direttive e decide promozioni e spostamenti. Una vicinanza che, oltre ad abbattere le distanze fino a rischiare di confondere controllato e controllore, è anche foriera di potenziali conflitti di interessi. Eventualità non proprio peregrina, se l’Anticorruzione ha dovuto chiarire che non può essere nominato nell’Oiv di un Comune chi è stato candidato in una lista a sostegno del sindaco.
Qualche precedente assai particolare del resto non manca. Nel 2010 l’allora presidente della Provincia di Salerno, il deputato di Fratelli d’Italia ed ex An Edmondo Cirielli, scelse “in casa” i membri dell’organismo di valutazione: su sei componenti, ben tre erano stati nell’esecutivo locale di Alleanza nazionale e un altro era stato candidato senza successo alle regionali di pochi mesi prima con una lista di centrodestra. Come presidente era invece stato nominato un avvocato con un passato da assessore comunale. Quanto meno in quota Udeur.