Tecnologie. Comfort. Privacy. Strutture specializzate. Sempre aperto ai familiari. Le regole per cambiare la sanità. Dalla parte dei malati
Mi divertì e mi fece riflettere, parecchi anni fa, un racconto inglese sulle partite a scacchi tra due amici che si comunicavano la mossa per posta. Regnava la regina Vittoria, e le lettere viaggiavano per nave dalla Gran Bretagna a una remotissima residenza coloniale, e viceversa. I due avversari erano formidabili, veri maestri di scacchi. Passavano mesi, e le due scacchiere aspettavano l'una sotto i grigi cieli di Londra, l'altra nella bianca luce equatoriale. L'assurdità del racconto mi torna in mente quando mi chiedono quale sanità vorrei in Italia, e quale ospedale e la sua organizzazione. Perché mi trovo a fare un parallelo, non importa se arbitrario, tra l'abilità scacchistica di quei due giocatori e l'enorme capacità di diagnosi e cura della medicina attuale. Perché il mezzo che trasferisce le due abilità è sempre una lentissima nave. Fuor di metafora, mi sembra inaccettabile che gli ospedali e l'intera rete del sistema sanitario siano cambiati molto poco rispetto a trenta o quarant'anni fa, e che alla vera e propria rivoluzione delle conoscenze e delle tecnologie mediche si contrappongano ospedali ancora organizzati secondo vecchi principi, e con ambulatori territoriali che funzionano come al tempo delle mutue.
Come vorrei l'ospedale, allora? La prima cosa è che esso dovrebbe girare attorno al paziente. Chiunque sia pratico di ospedali ha sicuramente notato che la gran parte dell'attività viene organizzata in funzione e secondo le esigenze dei medici e viene prevalentemente concentrata nelle ore del mattino. Ci sono ragioni inerenti alle terapie, ma ci sono anche ragioni che non girano affatto intorno al malato, ma solo intorno all'organizzazione interna e alle esigenze particolari di medici, infermieri e tecnici. Ci si è dimenticato che l'architettura stessa dell'ospedale, e a maggior ragione la sua funzionalità, deve rispondere ai bisogni del paziente, essere in ogni sua parte funzionale al soddisfacimento delle sue esigenze. Chiediamoci che cosa è la situazione di malattia? Per moltissimi pazienti è uno stato di relegazione dalla vita normale e dal contesto sociale. L'ospedale non ha il diritto di aggravare questa relegazione, ma deve superare il suo antico carattere di rifugio per diventare un posto dove il malato vede riconosciuta la sua identità umana. Le esigenze e i bisogni del paziente vanno compresi parlandogli, e ascoltando con attenzione i familiari.
Ecco: i familiari, gli amici. Nell'ospedale che vorrei, non si sente più il brusìo della piccola folla che si raduna davanti alle porte chiuse del reparto aspettando il benedetto inizio dell'orario di visita. E non si sente più la voce secca delle caposala che chiedono ai parenti di uscire. È inaudito? L'ospedale a ingresso libero precipiterebbe nel caos? Io penso di no, e fatte salve alcune esigenze, consentirei l'entrata senza limitazioni per tutte le ore diurne. Avere intorno l'affetto e le premure dei propri cari è di grande aiuto per chi soffre; i parenti sono i migliori assistenti morali, in grado anche di collaborare efficacemente con medici e infermieri. Ma come la mettiamo con l'inossidabile rito del 'giro' del primario con la coda degli assistenti al letto del paziente? Spesso si tratta di un'esibizione scenografica più che un'occasione d'insegnamento da parte del primario. Ecco, proprio questo 'giro', considerato sacrosanto e intoccabile, è la spia di un'organizzazione antiquata, che resiste al cambiamento e che continua ad applicare le procedure di una medicina ormai del passato. Penso che il famoso 'giro', con il paziente denudato nel suo letto e con gli altri ricoverati che ascoltano e guardano curiosi, debba essere riconsiderato. Lasciando spazio invece a una visita medica personalizzata, da effettuare in tutta privacy in un'apposita saletta del reparto, dove il medico può avere a disposizione il computer per il richiamo dei dati e per la lettura dei referti diagnostici, oltre a poter prendere visione direttamente di tutte le immagini ottenute con le varie e sofisticate tecnologie.
Infatti è inutile acquistare apparecchiature modernissime e preoccuparsi di gestire le alte tecnologie, quando si dimentica che il vero valore aggiunto di un'impresa sono le risorse umane. Nella sanità, che non è tarata sul profitto, ma che va comunque gestita come impresa, non si può rischiare di aumentare ancora di più il gap tra evoluzione tecnologica e involuzione organizzativa. La cosiddetta umanizzazione degli ospedali (e in genere dei servizi preposti alla salute del cittadino) comincia proprio con l'interesse partecipativo di chi ci lavora, ed è certo che non si può raggiungere la qualità delle cure se non si fa passare una cultura nuova, di valorizzazione professionale di medici, biologi, tecnici e infermieri. Con una novità molto più umanizzante delle volenterose piante verdi che stanno comparendo un po' dappertutto: la formazione dei curanti dovrà avere come punto di riferimento la persona nel suo complesso e non solo la preparazione scientifica e tecnico-operativa. Ma la qualità di queste relazioni dipende molto spesso dalle condizioni di lavoro riservate al personale: contano condizioni come il coinvolgimento, la formazione, l'aggiornamento continuo professionale, la capacità del direttore di divisione di fare squadra, di stimolare motivazioni intellettuali e creare un'organizzazione che cura con grande attenzione la continua crescita professionale.
L'ospedale è l'immagine della sanità, e nella sanità che vorrei cambiano faccia soprattutto gli ospedali. La prima cosa che vorrei è veder rispettato il mio diritto alla privacy, senza il disagio della promiscuità. Mi riferisco al diritto di essere ricoverati in stanze singole e confortevoli. Ancora oggi si costruiscono ospedali con camerate di quattro-sei letti: è inconcepibile e per molti aspetti assurdo che si neghi un banale comfort che tutti godiamo quando si va in albergo. Anch'io durai fatica a convincere gli architetti, che progettavano l'Istituto Europeo Oncologico realizzato ormai 12 anni or sono a Milano, di prevedere stanze singole. Spiegai che pensavo l'ospedale come la casa del malato. Una casa dove si va a vivere in particolari circostanze, dolorose certamente, ma a causa delle quali le abitudini della nostra esistenza non devono cambiare e dove si deve poter continuare a vivere come se fossimo a casa propria.
Certo gli ospedali oggi sono vecchi. Degli oltre mille ospedali italiani, il 30 oer cento è stato costruito prima del '900, e un altro 30 tra il 1900 e il 1940. Insomma, più di 600 ospedali hanno oltre sessant'anni di età. È un patrimonio in condizioni non adeguate agli standard ora richiesti, sia per il conforto alberghiero sia per la sicurezza. Perché, soprattutto, gli ospedali della medicina di ieri e dell'altro ieri non sono più adatti alla medicina così come si sta sviluppando oggi, e ancor più si svilupperà domani. Sono troppo grandi, hanno troppi reparti di ricovero, troppi letti. Il nuovo modello di ospedale (interpretato molto bene dall'architetto Renzo Piano, che incaricai del progetto quando ero ministro della Sanità) deve essere costituito di due strutture. La prima sarà essenzialmente una struttura per acuti, con molte sale operatorie, un attrezzato dipartimento di emergenza-urgenza, la dotazione di tecnologie d'avanguardia disponibili 24 ore, e con personale particolarmente esperto nelle cure intensive. Relativamente basso il numero dei posti letto, e degenze brevi o brevissime. Ecco, nell'ospedale che vorrei non si dovrebbe più sentire il medico che dice: "La ricovero per alcuni esami", e così impegnare un letto d'ospedale per controlli che si possono fare nell'ambulatorio sotto casa.
Accanto a questo ospedale, una residenza dotata di moderni standard di comfort, dove i pazienti possano soggiornare e venire monitorati in attesa di tornare a casa propria, col grande vantaggio di avere lì vicino tutte le tecnologie e le specialità che potrebbero essere necessarie in caso di complicazioni. E con un grande risparmio della spesa pubblica, perché un letto d'ospedale costa al giorno mediamente dai mille ai 1.500 euro, mentre nella residenza adiacente costa dieci volte meno.
Ma c'è anche un'assistenza alternativa al ricovero ospedaliero, utilizzata da tempo in paesi industrializzati come il Canada, la Francia, la Gran Bretagna. La più conosciuta, e che sta prendendo piede anche da noi (ma non in maniera sufficiente, e con forti differenze tra nord e sud Italia) è il Day Hospital, che può essere diagnostico, terapeutico, riabilitativo. Un'altra alternativa, che sarebbe da incentivare e sviluppare in un nuovo modello di sanità, è la dimissione protetta, per ora praticata da poche divisioni ospedaliere: il malato, che non necessita più di cure ospedaliere, ma di terapie di mantenimento e di controlli periodici, viene dimesso, e torna in ospedale solo quando occorre per queste cure e controlli. A casa, viene seguito da vicino dal medico di famiglia, un altro ruolo da incentivare e valorizzare.
Infine, una buona sanità dovrebbe attuare una rete capillare di ambulatori, per così dire sotto casa dei cittadini. Per curarsi senza lunghi spostamenti verso gli ospedali, con grande vantaggio per tutte quelle persone che pur senza guarire sono debitrici della loro vita (molto spesso, una vita di buona qualità) ai grandi progressi della scienza medica: nefropatici ormai in dialisi da anni, diabetici curati con l'insulina, malati di tumore che, pur non guariti, godono di una buona aspettativa di vita. È una realtà che richiede un nuovo assetto della sanità sul territorio, per mantenere un contatto e un'assistenza continua con questi pazienti.
E questa rete, a completare il modello di nuova sanità che io vorrei, eserciterebbe sul territorio una funzione fondamentale in tema di prevenzione e di diagnostica precoce. E renderebbe compiuto quel passaggio dal Welfare State alla Welfare Community, cioè dal concetto di uno Stato che dà assistenza e cura a quello di una Comunità che responsabilmente concorre al raggiungimento della salute, perché la salute non è patrimonio del singolo, ma di tutta la comunità. C'è una supertecnologia che ormai ci dà diagnosi precisissime, ma ancora una volta bisogna sottolineare che l'organizzazione deve tenere il passo con questo sviluppo, e fare l'assist per realizzare il gol di una prevenzione di massa. Seguendo la rivoluzione copernicana del cambiamento in atto: dalla medicina della malattia alla medicina della salute.