Che notte quella notte! Quella del 17 dicembre dell'anno di grazia 2007 rimarrà segnata a lungo negli annali di Buccinasco, un paesone a sud di Milano, un tempo quartiere dormitorio e oggi zona residenziale dove le case si vendono anche a quattromila euro al metro quadro. La ricorderanno i 28mila abitanti, ma la ricorderà anche la 'ndrangheta, la mafia calabrese. Dopo una seduta fiume di dieci ore, tra discussioni e sigarette fumate, rigorosamente 'en plein air', ecco arrivare in porto il nuovo piano regolatore della città: tra champagne e panettone, giusto otto giorni prima di Natale. Hurrah, è fatta, gongolano i componenti della giunta di centrodestra guidata dal sindaco Loris Cereda. Una colata di cemento si poserà su Buccinasco, che vedrà quasi raddoppiati i volumi edificabili, passati da 270 mila, spalmati in dieci anni, a 500 mila in appena tre anni, e quasi triplicare la possibilità d'investimento nell'edilizia che ora sfiora la cifra record di 500 milioni di euro. Per la gioia di quello che qui chiamano il "partito del mattone", ben rappresentato in consiglio comunale da proprietari terrieri, titolari di studi di progettazione e di agenzie immobiliari. Ma anche per la felicità degli eredi della famiglia 'ndranghetista dei Barbaro di Platì, nel cuore dell'Aspromonte, oggi tutti impegnati nel business legale del movimento terra.
Scavi, ruspe, operai a bassissima specializzazione: è sempre e solo roba loro. È un monopolio quasi assoluto che non si limita ai subappalti di Buccinasco, ma si estende a più o meno tutti i comuni dell'hinterland milanese. Vuoi costruire a Corsico, a Cesano Boscone, a Trezzano? Le buche te le fanno le imprese legate a Pasquale Papalia, figlio del boss detenuto al 41 bis Antonio, o quelle vicine a Salvatore Barbaro che hanno sede legale a Platì, ma uffici anche a Buccinasco, in via Don Minzoni 11. Lo stesso palazzo dove, nel 2003, i carabinieri coordinati dalla procura di Reggio Calabria hanno passato settimane ad intercettare e pedinare Michele Papalia, scoprendo che attorno a quell'edificio girava vorticosamente un colossale traffico di droga. Ti sposti a nord e getti le fondamenta di un'abitazione nei comuni Novate e Bollate? Anche qui accendono i motori le ruspe che fanno capo alla famiglia mafiosa Mandalari-Novella. Vai verso Varese? A Tradate e Venegono spuntano i Morabito-Falzea di Africo. A Lonate, Busto e Gallarate, si fanno avanti i Sergi.
Sono tutti cognomi che hanno scritto col sangue e nel sangue la storia della 'ndrangheta. Gente che ha genitori e parenti in carcere e che, apparentemente, gli errori del passato non li vuole più commettere. I figli della mafia calabrese sono cresciuti. Hanno studiato. Hanno capito. E così, partendo da Buccinasco, dal paese che magistrati e investigatori definiscono "la Platì del nord", gli intrecci societari, di gradino in gradino, ti portano fino in via Montenapoleone. Ti sospingono nel centro di Milano, dove l'odore degli operai giunti dal sud per spostare terra con in tasca solo la licenza media non arriva, ma dove hanno aperto uffici e società per azioni manager non ancora quarantenni, nati in Calabria, residenti nell'hinterland, e proprietari di gruppi che controllano studi di progettazione, immobiliari, negozi di arredamento e aziende specializzate nei corsi di aggiornamento professionale. Usano il Blackberry, comunicano tra loro con Skype, parlano tedesco, inglese e spagnolo. Per gli uomini della Squadra Mobile della questura, sono la "generazione invisibile". Per gli investigatori della Dia e del Gico della Guardia di Finanza sono il segno evidente di come, qui al nord, la mafia calabrese si sia ormai "inabissata". Di come abbia capito che per crescere e prosperare è necessario nascondersi, non far rumore.
Coca & politica
In una metropoli in cui circa 120 mila milanesi, secondo le statistiche, fa o ha fatto uso di cocaina, i figli della 'ndrangheta li riconosci spesso proprio perché in tasca hanno la polvere migliore. Quella a cristalli o sassi, non tagliata, purissima. Roba che arriva dalla Spagna a bordo di auto, camper o tir. Anche se il mercato è ormai di fatto libero - la richiesta di droga in città è talmente alta che ormai nessuno più pretende di averne il monopolio - i canali di approvvigionamento migliori sono sempre i loro. Dei calabresi che in Venezuela, Colombia ed Argentina, mantengono contatti importanti. Così la potente cosca Morabito-Palmara-Bruzzaniti di Africo, usava come base logistica una serie di società aperte all'Ortomercato di Milano per far arrivare in città i carichi di 'neve'. E il boss Salvatore Morabito, appena uscito dal carcere, utilizzava un pass della Sogemi, la municipalizzata che gestisce l'area dove si vendono all'ingrosso i generi alimentari, per passeggiare indisturbato tra uffici amministrativi e banconi. Il tutto nel silenzio più assoluto della politica locale. Quando nel maggio di quest'anno i magistrati ordinano il blitz, sequestrano 206 chili di coca pura all'81 per cento, scoprono che in un palazzo della Sogemi, all'Ortomercato, i presunti complici del capobastone avevano persino aperto un night club con tanto di entreneuse fatte arrivare dai paesi dell'Est. E il neo presidente della municipalizzata, Roberto Predolin (An), che fa? Rilascia un'intervista in stile Reggio Calabria anni '70. Il blitz della polizia? "Un po' di cinema. Elicotteri, decine di agenti, cani antidroga. Gradirei che usassero la stessa massiccia operatività all'esterno: a cominciare dalla prostituzione minorile in via Lombroso". Meglio ancora fa il consigliere regionale di Forza Italia, Alessandro Colucci, figlio del deputato Francesco, questore della Camera, già processato nei primi anni '90 per voto di scambio, ma assolto in Cassazione. Quando i giornali scrivono che due dei presunti complici di Morabito per telefono parlano di una cena elettorale in suo onore e, dopo la sua vittoria, dicono di avere "un amico in regione", lui smentisce tutto: "Escludo tassativamente di conoscere i personaggi in questione come di aver organizzato tale cena". Colucci mente.
Al ristorante con i boss
La cena, come 'L'espresso' è in grado di rivelare, c'è stata ed è stata documentata dagli investigatori. A organizzarla però, sostiene la procura, non è stato Colucci junior, ma il boss Salvatore Morabito in persona. La polizia infatti non solo intercetta, ma anche ne pedina i protagonisti e, alle 20 del 17 marzo 2005, vede Morabito e i suoi uomini, alcuni dei quali imparentati con le più celebri cosche calabresi, entrare nel ristorante 'Gianat' di via Lazzaro Papi. Poi li raggiunge anche il calciatore Giuseppe Sculli, ex nazionale under 21 e nipote del celebre 'ndraghetista Giuseppe Morabito, detto 'Peppe Tiradritto'. Alcuni dei partecipanti escono dal ristorante verso la mezzanotte e salgono su una Bmw 530 affittata da una delle società che gravitano sull'Ortomercato, altri su una Golf intestata a un Palamara di Africo. Alessandro Colucci, ricordano invece i documenti depositati dal pm, se ne va a mezzanotte e mezza "in compagna di un uomo anziano... a bordo di una Bmw X5". Mezz'ora dopo esce dal 'Gianat' anche lui, Salvatore Morabito.
Quale sia l'obiettivo del clan diventa poi chiaro ascoltando un'intercettazione del 5 aprile di 3 anni fa. Sono le 20 e 43. Due presunti narcotrafficanti commentano i risultati elettorali. C'è felicità per la vittoria di Colucci e delusione per la sconfitta di un secondo candidato appoggiato dai malavitosi calabresi. Francesco Zappalà, che per l'accusa è uno degli organizzatori delle importazioni di droga, discute la cosa con il suo amico Antonio Marchi. Quest'ultimo, scrivono gli investigatori, "si lamenta dicendo che come al solito hanno sbagliato (...) la campagna elettorale, Zappalà risponde che era certo della vincita di Colucci e che quindi bisognava appoggiare un altro candidato per avere più amici". Marchi però non è convinto e così parte un botta e risposta con Zappalà. "E soldi dei voti che ho speso?", domanda sconfortato: "I soldi dei voti che hai speso... devi pagare qualche trecentomila euro per l'ineducazione...", Marchi allora protesta: "Non abbiamo nessun beneficio... bisogna chiamare Colucci...". Zappalà: "E vabbè, ma Colucci è sempre una referenza.." Marchi: "Perché io parlavo con mio fratello... noi vogliamo fare un'azienda nel meridione... a Bova". Zappalà: "E c'è bisogno di Colucci per fare l'azienda?". Marchi: "E sì, perché loro finanziano...". Zappalà lo interrompe: "Ma va...le finanze te le faccio avere da Loiero (Agazio, eletto dal centrosinistra ndr) che andato adesso in Regione in Calabria...che è un amico nostro". "E allora facciamolo... io voglio fare un'attività!" "Ma tu che cosa vuoi far in Calabria?". Marchi: "E.. non so, adesso così su due piedi...ci devo pensare".
La 'ndrangheta va a ballare
Pochi tra gli uomini dei boss sono, economicamente parlando, così sprovveduti come Marchi. In provincia l'esperto capobastone ultrasettantenne, Costantino Mangeruca, diventato uno stimato commerciante dopo aver scontato in gioventù una condanna per omicidio, si è visto sequestrare dalla procura di Crotone circa 30 milioni di euro di beni. Lui aveva puntato tutto sui negozi di mobili e così, dalle parti di Cornaredo e in Calabria, i carabinieri hanno messo i sigilli non solo ai suoi grandissimi show-room, ma anche a 23 appartamenti, 9 locali, 3 magazzini e un garage.
Investimenti all'antica che man mano ci si sposta verso piazza Duomo vengono sostituiti da business molto più moderni. A Milano il vero affare è ormai quello dei locali notturni. Per rendersene conto basta poco. Sempre più spesso la security delle discoteche è coordinata da calabresi, o meglio calabrotti, come dicono da queste parti. E in qualche caso anche il controllo diretto di bar, discopub e club privé è cosa loro. I nomi dei locali della 'ndrangheta è sulla bocche di tutto il popolo delle notti milanesi, ma finora nelle maglie della giustizia ne sono incappati solo due, molto alla moda, e un club privé: il 'Madison', nella zona di viale Certosa, il 'Café solaire' all'Idroscalo, a due passi dall'aeroporto di Linate, più 'Le Monde' di via Mac Mahon, dove lo scambio delle coppie, avveniva sotto gli occhi dei gestori cosentini, Palmerino Rigillo e Vincenzo Faldetta, arrestati per droga nel 2006 dal gip Paolo Ielo, e vicini al celebre boss Franco Coco Trovato: tutti collegati alle famiglie De Stefano-Tegano di Reggio Calabria e Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto.
Le intercettazioni raccontano che, fino a due anni fa, grazie alla 'bamba', fornita dalla mafia e consumata al 'Madison', al 'Café Solaire' e a 'Le Monde', gli affari vanno a gonfie vele. E quando sorge il problema di rinnovare la licenza del 'Café Solaire', ecco scendere in campo due dei Trovato, Mario, fratello di Franco, e il figlio Giacomo, che si interessano della questione. Promettendo il proprio intervento presso l'amministrazione provinciale, passata nel giugno 2004 al centrosinistra guidato dall'ulivista Filippo Penati. Sarà stata una vanteria, eppure Mario al cellulare spiega a Giacomo: "...Se non ci rifanno il contratto, adesso c'è la sinistra, è giusto?... noi abbiamo la strada, probabilmente... siccome adesso la Provincia ce l'ha in mano la sinistra, prima c'era la Colli (Ombretta Colli, sconfitta da Penati, ndr), che era di Berlusconi". Poi Mario approfondisce come: "Tramite Marco Medda (un sardo ex camorrista, detenuto a Livorno, ndr), lui è di sinistra... allora gli ho parlato: 'vedi se c'è la possibilità'. Mi ha detto: 'come no, fammi sapere i nomi di questi qua che devono rinnovare il contratto'. Io, tramite lui, mando l'ambasciata".
C'è chi dice no
Vero o falso che sia, resta il fatto che la malavita considera la politica una sorte di ventre molle su cui intervenire. Se la regola generale, come conferma il pm milanese Alberto Nobili, è quella "di non far rumore", quando in ballo ci sono interessi da milioni e milioni di euro, spuntano, violentissime, le eccezioni. Torniamo a Buccinasco, il paese in cui tutto negli anni '70 era cominciato. Qui tra il marzo 2003 e novembre 2005, il vecchio sindaco di centrosinistra Maurizio Carbonera, si è visto incendiare l'automobile tre volte; ha ricevuto, alla vigilia della discussione del piano regolatore, una busta contenente un proiettile di mitragliatrice; è stato destinatario di un orribile messaggio, simboleggiato da una croce piantata nel parco comunale. Stesso trattamento, a partire dal 2002, è stato poi riservato, ad alcuni uomini d'affari e operatori immobiliari: i primi hanno visto andare in fumo le loro auto, i secondi hanno dovuto fare i conti con i proiettili esplosi contro di loro. In un'escalation d'intimidazioni che porta, nel novembre del 2005, al ferimento di un costruttore di origine calabrese, Agostino Fera, gambizzato dalle parti dei Navigli. Segni particolari? Era stato socio di Antonio Papalia, l'uomo spesso indicato come il grande capo dei clan al nord.
La Buccinasco che conta, quella che adesso è maggioranza in comune, preferisce far finta di niente. Eppure basta andare in via Bramante e guardare le serrande chiuse del bar Trevi, dove fino al 2002 i soldati dei Papalia si piazzavano nella sala da ballo illuminata da una sfera stroboscopica, per rendersi conto che in paese sta accadendo qualcosa di anormale. Il bar Trevi, dopo la confisca da parte della magistratura, doveva diventare una Pizzeria Sociale, in cui Libera, l'associazione antimafia di don Luigi Ciotti, avrebbe dovuto servire prodotti frutto delle terre del Sud sequestrate alle cosche. Un bel segnale di riscossa da sbattere in faccia ai padroni vecchi e nuovi di Buccinasco. E invece quando in municipio arriva la nuova maggioranza, il neo sindaco Cereda, revoca le decisioni del suo predecessore: i 25mila euro, stanziati per finanziare l'attività, vengono dirottati alle manutenzioni straordinarie e l'assegnazione dei locali a una onlus è cancellata. Di fronte alle proteste, il primo cittadino della "Platì del nord" polemizza con durezza: "La sinistra non venga a insegnare a me che cos'è la legalità". Ma la guerra alla 'ndrangheta silenziosa, quella che al sangue preferisce gli affari e che ora è libera di spacciare il naufragio del progetto pizzeria come una propria vittoria, non è una questione di casacche politiche. È una questione di civiltà.