L'esplosivo per l'attentato fornito dagli americani. Il ruolo di Andreotti e di un ministro. Un neonazista implicato e finora sconosciuto. Parla l'ex capo del Sid Gianadelio Maletti


Illovo, nel cuore bianco di Johannesburg. Un grande appartamento, arredato all'antica. Il portiere di colore, giù nell'atrio, si leva il cappello e lo saluta con un inchino: «Good morning, my general». Gianadelio Maletti, 88 anni, è l'ex capo del controspionaggio del Sid. «Un esiliato politico », dice lui.

È scappato dall'Italia nel 1980, per sfuggire all'arresto e alla condanna definitiva per i depistaggi di piazza Fontana. Ora dal Sudafrica, dove in un weekend di metà novembre si è reso disponibile per questa intervista, lancia un segnale preciso ai giudici che lo hanno convocato a Brescia per il processo in corso per la strage di piazza della Loggia: «Attendo un salvacondotto per poter venire anch'io a testimoniare sulle stragi».

Il generale Maletti racconta particolari inediti sulla pista nera e sulle coperture politiche. Ma, soprattutto, conferma il ruolo di un protagonista tutto nuovo della strategia del terrore e cioè Ivano Toniolo, il neonazista sparito nel nulla (sarebbe ora in Angola), la cui figura è tanto inquietante da aver convinto i magistrati milanesi a riaprire a sorpresa gli interrogatori sulle bombe nere.

Di Toniolo ha parlato la prima volta Gianni Casalini, il militante di Ordine Nuovo reclutato nel 1972 dal Sid come "Fonte Turco" e poi bruciato dallo stesso Maletti. Testimoniando al processo di Brescia, Casalini si è autoaccusato di aver aiutato proprio Toniolo a mettere due bombe sui treni a Milano, quattro mesi prima di Piazza Fontana.

Generale, è vero che una parte dell'esplosivo della strage arrivò dalla Germania?
«Da un deposito militare americano in Germania. Entrò in Italia dal Brennero, a bordo di uno o più Tir. Fu scaricato a Padova, dove venne affidato agli ordinovisti locali».

Di che esplosivo si trattava?
«Ricordo l'informativa: parlava di trinitrotoluene. Ovvero, tritolo».

Era una notizia attribuita dal Sid alla "Fonte Turco", cioè Casalini?
«Mi pare proprio di sì».

Eppure, nel giugno 1975, lei ordinò di «chiudere la Fonte Turco». Forse perché poteva parlare di Giannettini, suo informatore diretto, e coinvolgere il Sid?
«Guardate, non ricordo. Forse c'erano motivi giudiziari che consigliavano di chiudere il contatto. Non ricordo».

Casalini era un militante del gruppo di Freda e Ventura e partecipò agli attentati sui treni dell'8 e 9 agosto '69. Lei lo sapeva, perché non informò la magistratura?
«Scusate, ma cosa siete voi? Giudici o giornalisti? Partecipare può anche voler dire fare da palo. Può aver portato l'esplosivo, ma senza piazzarlo personalmente sui treni. È tutto».

Generale, lei parla di un deposito americano in Germania. Gli Usa volevano la strage?
«No, io non credo. In piazza Fontana non doveva morire nessuno: la bomba doveva avere un effetto psicologico, politico. Gli americani fornivano mezzi ed esplosivo, ma il lavoro lo lasciavano fare agli indigeni. C'era un laissez-faire, un indirizzo generale, poi messo in pratica da gruppi italiani o internazionali. Se ne occupavano i servizi segreti, ma non solo la Cia».

E da chi partiva questa strategia?
«Nixon ne era a conoscenza. Era un uomo d'azione: molto spregiudicato e molto anti- sovietico. Tutto ciò andò avanti fino al tramonto di Nixon. Fino alla strage di Brescia, insomma».

Nixon sapeva anche del golpe Borghese?
«Direi di sì. C'era un filo diretto, in questo senso. Ma non bisogna stupirsene. L'Italia stava a Washington, in quegli anni, come l'Austria di Dolfuss stava a Mussolini. Era stato il servizio americano, ad esempio, a finanziare la costruzione della base militare di capo Marrargiu, dove si addestravano i gladiatori. Questo era il clima».

E in Italia chi sapeva?
«Io sono convinto di questo: della strategia americana, sia il capo dello Stato, il presidente Saragat, sia Andreotti sapevano. Non direi che avessero un coinvolgimento diretto. Andreotti, probabilmente, ha lasciato un po' fatalisticamente che le cose prendessero il loro corso, non immaginando la strage: avrà pensato a una bomba che può rompere un po' di vetri. Fece così anche un anno dopo, con il golpe Borghese».

Generale, lei conosceva molto bene Mino Pecorelli, il giornalista di "Op" ucciso nel 1979. Andreotti è stato assolto senza rinvio dalla Cassazione. Lei che ne pensa?
«Posso dire questo. Pecorelli venne da me tre o quattro giorni prima di essere ucciso. Era molto scosso, si sentiva minacciato. Quando uscì di casa si accomiatò così: "Arrivederci... forse". Ebbene, in quell'occasione mi disse che Licio Gelli, pochi giorni prima, gli aveva offerto tre milioni di lire per ritirare dal mercato l'ultimo numero di "Op", "Tutti gli assegni del presidente". Gli chiesi: "Per conto di chi lo ha fatto?" E lui: "Per conto di Andreotti"».

Lei parla di rapporti strettissimi tra Andreotti e Gelli. Ma il senatore a vita ha sempre sostenuto che si conoscevano appena...
«Andreotti conosceva molto bene il capo della P2. Gelli stesso mi diceva che si vedevano di frequente e che parlavano di politica. E io credevo a Gelli, un uomo di potere che non aveva bisogno di vantare contatti».

Sul golpe Borghese, lei dichiarò al giudice Casson che il parlamentare democristiano Gioia aveva tentato di coinvolgere elementi mafiosi.
«Sì, ricordo bene il dossier su Gioia. Fu bruciato nel 1974».

Bruciato? E perché?
«Era l'agosto del 1974. L'ordine arrivò dal governo. Venne anche una commissione, di cui faceva parte l'onorevole Guadalupi. Furono distrutti oltre 20 mila dossier, tutto il materiale sugli elementi indagati dal Sid nel corso degli anni: le cosiddette malefatte del Sid. Caricammo i faldoni su autocarri e li portammo all'inceneritore di Fiumicino. C'ero io, c'era il colonnello Viezzer e c'era qualche parlamentare».

Erano fascicoli personali?
«Sì, anche cose di poco conto: storie di cardinali che andavano a letto con la perpetua... C'era anche questo».

Il Sid, negli stessi mesi, stava finendo nel mirino della magistratura. Il 31 ottobre fu arrestato il generale Miceli. È un caso?
«Io so solo questo: il rogo di Fiumicino è stata un'opera di cautelazione contro certe cose che avrebbero potuto emergere. Non ho letto i dossier, non so altro».

Dopo 40 anni, lei sa i nomi dei responsabili della strage di piazza Fontana?
«Io conosco dei nomi, ma non ho prove, e non li faccio».

Il nome di un nuovo sospettato, allora, glielo facciamo noi: Ivano Toniolo.
«Può darsi. Mi lasci dire: può darsi. Ma ci sono altre persone, oltre a Toniolo. Alcuni mai indagati. Sto parlando di chi partecipò attivamente all'organizzazione dell'iniziativa».

Quando sapremo tutta la verità?
«Quando morirà qualcuno. E non parlo del sottoscritto. Qualcuno che ha pubblicato recentemente delle memorie di successo. E che su certi punti, però, ha elegantemente sorvolato ».

Solo lui può dirci la verità?
«No, non solo lui. Ci sono anche altri, nel mondo politico. Me ne viene in mente uno, che faceva il ministro. Non in questo governo, non in quello precedente: in quello prima ancora. Ma non parlano, è inutile: non parlano».

Perché proprio la strage di piazza Fontana è ancora un mistero? Il caso Moro, ad esempio, è stato risolto.
«Ah, il caso Moro. Vedete, gli uomini delle Brigate rosse sono stati arrestati, è vero. Ma è questa la soluzione del caso Moro? I brigatisti hanno agito per conto loro, o per conto terzi? La stessa cosa vale per piazza Fontana. Forse, col tempo si saprà...».

Intervista prodotta da G.Pedote e F.Virga per la Mir Cinematografica

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