Ora che non è più una novità, dopo sette stagioni di serie A e B, azzarda anche un filo di trucco prima di scendere in campo: "Vista l'età...", sorride Cristina Cini, 39 anni da Firenze, la prima donna guardalinee (pardon: 'assistente') del calcio italiano. Prima e, ad alto livello, ancora unica: sembrava l'inizio di una nuova era, quando debuttò in Juventus-Chievo il 24 maggio del 2003, ma forse si tratta di ere geologiche, dato che il mondo del pallone rimane assolutamente maschile e le donne sono ancora delle intruse. "Speravo di essere un'apripista e invece sono rimasta un caso isolato, ma la speranza non muore mai. Qualcuna brava dietro di me in serie C c'è", dice la Cini, diplomata al liceo artistico e pittrice di acquerelli per hobby e per arrotondare ("Riproduco stampe antiche e paesaggi"). Alle pareti della sua casa nel bosco, in Val di Sieve, appende quelli: neanche una sua foto in azione.
La sua presenza in partita non desta più scalpore né curiosità né sarcasmo: ci hanno fatto tutti l'abitudine, sia calciatori che tifosi, e al massimo devono ricordarsi di declinare al femminile gli insulti. Tanti e impietosi dalle tribune, dove la pari opportunità trionfa. Meno, molti meno, dal campo, dove si è guadagnata la stima e la fiducia di tutti sbagliando poco e non combinando mai grossi guai da moviola. La galanteria non c'entra, anzi: fatto il primo inchino e il primo sorrisino (ironico) di benvenuto nel paradiso degli orchi in mutande, non fosse stata all'altezza l'avrebbero sbranata con tutta la bandierina, peggio di una che s'addormenta in macchina all'incrocio.
"Ormai mi hanno abbastanza accettata. All'inizio c'era più curiosità che diffidenza, ma tanti calciatori e dirigenti li conoscevo sin dai tempi della serie C. Offese non ne ho mai sentite, qualche gesto di stizza nei miei confronti c'è ma è nella norma: né più né meno di quelli rivolti ai miei colleghi maschi. L'impegno vero è soprattutto quello atletico per poter superare i test fisici obbligatori, dove forse devo mettere una percentuale di fatica in più per colmare il gap. Ma avendo fatto atletica da ragazza sono avvantaggiata".
Il segreto per farsi rispettare è lo stesso delle altre pioniere, come le presidentesse Rosella Sensi (Roma) o Francesca Menarini (Bologna): "Cercare di passare del tutto inosservata. Mi sono sempre presentata in maniera seria e con la voglia di lavorare bene", dice la Cini, internazionale dal 2004. Ci vuole il microscopio per vedere le quote rosa nel calcio: "Eppure noi donne forse potremmo portare un po' più di educazione in campo e un po' meno violenza fuori, chissà". Qualche calciatore più simpatico c'è, ma niente nomi: è pur sempre un arbitro, quindi asessuata per definizione come gli angeli. "Trovare un mazzolino di fiori ogni tanto nel mio spogliatoio fa piacere. Tutto lì". Avance mai, situazioni imbarazzanti nemmeno: finirebbero a referto.
Il marito Fosco, con cui è sposata da 14 anni, fa l'autista di autobus e iniziò il corso arbitri con lei, ma dopo cinque anni mollò. Non la segue mai. "È venuto solo al debutto. Deve restare a badare i nostri sette cani. Non mi metterebbe a disagio né soffrirebbe di quel che sente dirmi sulle gradinate, mi sembra solo assurdo che venga: è così comodo il divano". Magari ai Mondiali femminili in Thailandia e Cile o alle ultime Olimpiadi di Pechino, dove Cristina ha sbandierato in quattro partite fino alla semifinale, Fosco poteva anche portarselo. "Ma tanto quando torno, va in vacanza lui".
A voler poi essere precisi, la vera parità sarà raggiunta quando a una donna sarà concesso anche di metter piede dentro ad un campo di serie A, senza esser lasciata sulla soglia a scorrazzare ai bordi, col divieto di violare quel sacro confine di gesso bianco: ma per riuscirci bisogna armarsi di fischietto, la bandiera non basta. In questa giustizia le carriere sono separate. "A me il fischietto non è mai mancato: faccio l'assistente da tanto, mi viene bene, mi diverte ed è già parecchio complicato".