Negli Usa la macchina della prevenzione sanitaria si è inceppata e il virus ha scatenato il caos. Ma anche polemiche. Che non risparmiano la Casa Bianca

Il Messicano sfida l'America

Una Janet Napolitano contrita è apparsa in televisione domenica 26 aprile con una notizia che proprio non ci voleva. È toccato a lei, il segretario dell'Homeland Security del team Obama, annunciare agli americani che il virus dell'epidemia suina era diventato un problema, e grosso, anche negli Usa. La Napolitano ha rassicurato l'opinione pubblica, ha annunciato l'adozione di una serie di misure precauzionali ai confini col Messico per contenere il contagio, la consegna di 12 milioni di dosi di farmaco antivirale, in prevalenza Tamiflu, ai presidi sanitari dei diversi Stati che potranno distribuirli immediatamente se ne avranno bisogno. E ha dichiarato lo stato di emergenza sanitario.

Toccava a lei, è vero, dare la brutta notizia. Ma a notarsi, oggi, in America è il grande assente: la prodigiosa macchina da guerra dei Center for Diseases Control, i centri per la difesa dalle malattie infettive, palesemente in ritardo nell'intervenire nella nuova crisi sanitaria. A puntare il dito per primo è stato il 'Washington Post' con un editoriale in prima pagina. E l'onda delle critiche è in arrivo al Congresso, dove è già in calendario una serie di audizioni per fare luce sulla falla nella rete di protezione. Nel pieno della crisi, l'amministrazione Obama sembra prendere le distanze dai supertecnici di Atlanta, peraltro ereditati dall'era Bush, e ha detto al mondo che non cercherà scuse.

Perché resta il fatto che l'Early warning network, la rete di rilevazione immediata delle malattie infettive messa a punto dal Cdc con gran fanfara nel 2001, e che dovrebbe proteggere gli Usa da eventuali attacchi biobatteriologici, ha fatto la fine della linea Maginot. E in molti si chiedono: se non si è riusciti a bloccare un virus influenzale neppure tanto violento, come ci si sarebbe potuti difendere da un attacco terrorista?

Cinquemila ospedali, 11 mila pronto soccorso e 370 mila medici - tante sono le istituzioni e i professionisti che partecipano alle rete di rilevazione statunitense - non sono stati in grado di lanciare né quell'allarme anticipato, che avrebbe potuto evitare l'epidemia, né a informare che, di fatto, negli Usa era in corso un'epidemia. "La rete di rivelazione si è dimostrata un sistema inefficace", commenta David Relman, epidemiologo della Stanford University: "Che eravamo sotto scacco epidemico ce ne siamo accorti solo perché un paio di ragazzini californiani sono finiti al pronto soccorso. Ma a quel punto la crisi era già in pieno svolgimento".

I baroni di Atlanta, però, non ci stanno. E distribuiscono responsabilità a pioggia: "Stavamo tenendo d'occhio la situazione in California e Texas ma i messicani non ci hanno informato immediatamente di quanto stesse accadendo", afferma Arlene Porcel, responsabile delle comunicazioni del Cdc: "Invece di mandare i campioni da analizzare a noi, come avrebbero dovuto fare, li hanno spediti in Canada. Ma i canadesi di casi simili non ne avevano ancora registrati".

Un dettaglio tecnico? Mica tanto, perché il comportamento dei messicani rileva un problema serio. E così si scopre che mentre le merci viaggiano liberamente, in America settentrionale, in virtù delle restrizioni imposte dagli Usa per la loro sicurezza nazionale, le informazioni scientifiche e sanitarie si muovono come lumache. "I campioni di sangue li abbiamo mandati prima a Winnipeg perché volevamo reagire velocemente e le procedure per la spedizione e lo scambio di informazioni con il Canada sono più semplici", ha spiegato Mauricio Hernandez, sottosegretario messicano alla Sanità, ai reporter che gli facevano notare quanto fosse bizzarro la scelta di 'scavalcare' gli Usa e mandare i campioni al National Microbiology Laboratory canadese.

"Questo è il risultato della politica estera americana", afferma Relman: "L'amministrazione precedente si era convinta che la globalizzazione è una strada a senso unico, questo virus dimostra invece che è vero il contrario". E che qualcosa si fosse inceppato nella catena di trasmissione delle informazioni tra i presidi sanitari nord-americani lo ammette anche Anna Schuchat, direttrice pro tempore del Cdc, che ha dichiarato alla stampa di non avere nessuna idea di come si sta sviluppando la situazione messicana: "Stiamo mandando un team a Messico City per studiare il da farsi con le autorità locali, ma per adesso siamo a corto di dati scientifici".

In queste ore i tecnici americani stanno arrivando in Messico, insieme con i 205 milioni di dollari messi a disposizione dall'Oms per combattere la crisi sanitaria. E anche questa volta i messicani dovranno ripetere il loro motto: così lontani da Dio, così vicini agli Stati Uniti. La macchina combinata Usa-Oms si è mossa così rapidamente e in maniera così massiccia, suggeriscono molti, perché Obama non vuole correre il rischio di trovarsi al centro di un'epidemia killer: negli Usa per colpa dell'influenza muoiono già ogni anno oltre 30 mila persone.

Tuttavia, come si comporti davvero il virus messicano ancora non lo sa nessuno, e gli americani vogliono capirlo in fretta. Nella speranza che in Messico, una volta che il quadro sanitario diventi più chiaro, emerga che il tasso di mortalità sia più basso di quanto non sembri. "Il fatto che fino ad ora non si siano verificati casi gravi negli Usa non significa che non ce ne saranno", afferma Anna Schuchat: "Anzi, siamo sicuri che registreremo un'impennata, sia del numero dei casi che della loro virulenza, e qualcuno si rivelerà anche mortale".

Così negli Usa il panico cresce parallelamente al numero degli infetti. A New York un'intera scuola privata è finita in quarantena. Nell'Ohio le autorità stanno valutando se chiudere tutte le scuole. Nei principali centri urbani del paese le farmacie e i supermercati hanno già esaurito le mascherine azzurre, icona dell'ultima paura. Nel Mid West le famiglie degli ammalati vengono isolate. Il traffico aereo verso il Messico ha subito un tracollo e i voli nazionali sono desolatamente vuoti. I cinema e i teatri sono deserti e i tg martellano incessantemente con notizie sulla diffusione del contagio, alimentando una psicosi collettiva che cresce di ora in ora. Per evitare il caos è intervenuto lo stesso Obama, con una mossa che ha rilanciato il ruolo dei Cdc al fianco dell'Homeland Security. Il presidente ha ammesso che la situazione è seria, ma ha tranquillizzato gli americani, invitandoli a seguire le raccomandazioni dei Cdc per prevenire la diffusione del contagio. E di lavarsi spesso le mani. "Sembra il suggerimento dato dall'amministrazione Bush per difenderci da una bomba radiattiva 'sporca': coprite le finestre con buste di plastica e nastro adesivo", ironizza Relman.

Non manca chi mette in guardia dalle facili speculazioni. E ricorda i ricchi profitti che qualcuno fece con l'aviaria del 2005. Come la farmaceutica Roche, che vendette al governo di Bush milioni di dosi dell'anti-virale Tamiflu; altri, come l'allora ministro della Difesa Donald Rumsfeld e l'ex segretario di Stato nell'amministrazione Reagan, George Schultz, fecero ottimi investimenti a Wall Street puntando su Big Pharma. Del resto, anche in questi giorni il titolo della Roche sta andando alla grande. E a guadagnare, secondo un rapporto di Thomson Reuters Private Equity, sarà anche una delle maggiori venture capital di Silicon Valley, la Kleiner Perkins Caufiled & Byers: degli otto titoli del settore bio-difesa presenti nel suo portafoglio, due, la BioCryst Pharmaceuticals e la Novavax (che sostiene di poter produrre un vaccino per un nuovo tipo di influenza in 12 settimane) hanno registrato rispettivamente una impennata del 25 e del 75 per cento

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Disordine mondiale - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 27 giugno, è disponibile in edicola e in app