La morte del nostro soldato in Afghanistan era purtroppo preannunciata. Era nell'aria e nella logica delle cose. Non tanto perché i mezzi non sono sufficienti, poco protetti o perché il ministro non dà i soldi (tutte cose drammaticamente vere), ma perché i nostri soldati hanno assunto un nuovo atteggiamento operativo. Sfortunatamente il cambiamento non è stato dettato da una nuova strategia coordinata con gli alleati o da una migliore conoscenza della situazione. In realtà è partito dal basso ed è coinciso con il turno della brigata paracadutisti 'Folgore' che dell'Afghanistan non aveva né particolare conoscenza né migliore capacità di controllo del territorio. Tra le forze del nostro esercito i paracadutisti sono quelli più preparati alle operazioni ma anche i più vulnerabili alla propaganda dell'uso della forza. Sono immersi nella retorica delle maniere spicce, dello show di forza fisica e armata. I nostri parà hanno perciò ritenuto logico e naturale seguire l'onda sciagurata di quelle parti della nostra politica, della nostra stampa e dei nostri generali che assecondando il rambismo hanno creduto di fare un favore agli americani e agli altri alleati. Hanno creduto a chi, facendo leva sul loro spirito di corpo, reclamava il riscatto dell'onore nazionale macchiato dai precedenti contingenti, comandanti e governi ritenuti imbelli e incapaci solo perché avevano sparato e si erano fatti sparare meno degli altri.
Per questo i nostri parà hanno assunto l'iniziativa di cambiare linee d'azione e di reazione sotto l'occhio compiaciuto di comandanti americani prossimi ad essere giubilati, quello preoccupato degli inglesi sensibili agli equilibri locali e quello indifferente dei nostri vertici militari e politici. Non hanno capito che la relativa sicurezza conseguita dai precedenti contingenti, anche con i compromessi, nelle zone di Herat e Farah era fondamentale per l'equilibrio socio-politico dell'intero Afghanistan e quindi anche per l'efficacia delle operazioni alleate in altri settori. Hanno voluto semplificare considerando tutti gli afgani come talebani e nemici. Hanno seguito e talvolta guidato quelle parti dello stesso esercito afgano che odiano altri afgani solo perché appartengono ad altre etnie o tribù. Hanno inteso acquisire il controllo di aree che erano tranquille senza capire che la tranquillità era dovuta proprio alla discrezione di una presenza militare straniera ritenuta di occupazione. Non hanno capito che la tranquillità non era segno di sottomissione e che ci sarebbe voluto ben altro che qualche scaramuccia per mantenere il controllo con la forza: specialmente se priva di quella forza morale che possiede solo chi capisce e rispetta il contesto umano delle operazioni. Quattro mesi di questo atteggiamento hanno contribuito ad alterare equilibri fragilissimi e hanno smontato il lavoro fatto dai precedenti contingenti.
I nostri parà hanno anche mutuato dagli alleati la prassi di denunciare gli attacchi e le perdite subite senza mai accennare a quelli condotti e alle vittime provocate. Non hanno considerato che proprio queste ultime sarebbero state le cause di altre perdite, altrui e nostre, e che la situazione afgana richiedeva azioni più complesse e sofisticate della semplice caccia all'uomo. Hanno creduto che la missione internazionale si sarebbe esaurita con la loro operazione: nell'apoteosi. Nessuno ha spiegato loro che nel frattempo un'altra strategia americana era in vista e che il controllo del territorio della ben più turbolenta e importante provincia di Helmand dipendeva soprattutto da un diverso approccio verso la popolazione e dalla sicurezza delle province confinanti. Il generale McChrystal credeva di avere il fianco occidentale stabile quando ha iniziato l'operazione per il controllo di Helmand. In realtà Farah ed Herat erano diventate instabili senza che nessun talebano fosse immigrato. McChrystal si è trovato impelagato in una regione dove le migliaia di marines inviati non hanno incontrato resistenza mentre gli inglesi che ci stavano da sette anni hanno cominciato a morire a decine proprio per l'alterazione degli equilibri locali. Si trova con Farah ed Herat destabilizzati, con la Gran Bretagna che si chiede cosa stia ancora a fare in Afghanistan e con la Nato e l'Italia che di fronte alle nuove esigenze strategiche latitano, come sempre. Si trova anche con un contingente italiano che si appresta a lasciare il paese con un morto che peserà giustamente come un macigno sulle operazioni del prossimo, ma che rientra all'insegna della "missione compiuta".
Ecco, il problema vero delle nostre operazioni in Afghanistan sta proprio qui. Non si sa quale sia la missione da compiere e così tutti possono reclamare di averla compiuta. Si traballa tra l'assistenzialismo e le operazioni da seconda guerra mondiale. Non si ha il coraggio di fare veramente assistenza e sicurezza al governo afgano e neppure quello di ammettere che questa è un'altra guerra: che va combattuta con altri metodi, altre strategie, altri strumenti e altri uomini. Continuare nella cecità serve solo a prolungare l'agonia sia nostra che del popolo afgano. E in questa agonia collettiva le vittime e i morti hanno un ruolo drammaticamente importante: realizzano l'eroismo collettivo che altrimenti sarebbe difficile dimostrare. E noi, come gli altri eserciti che si arrabattano come possono tra l'indifferenza politica, la voracità industriale e l'inefficienza strutturale, abbiamo un tremendo bisogno di eroi. In questo quadro, il nostro soldato, come gli altri che lo hanno preceduto, è morto per una buona causa, come la intendeva Nietzsche. Tutte le altre scuse servono solo a offuscarne il valore. Il Lince non ha la torretta giusta? I ribelli aumentano l'esplosivo? Dobbiamo dare più soldi all'Iveco o a Oto Melara? Solo chi non è mai stato dentro un blindato e non ha mai visto l'Afghanistan può pensare che queste cose siano determinanti. I mezzi, per quanto blindati, sono vulnerabili all'incremento di potenza esplosiva e gli afgani dispongono di immense riserve di esplosivo grazie alle decine di milioni di mine e granate lasciate dai sovietici, ai razzi e bombe inesplose lasciate dagli americani, ai convogli di munizioni della Nato depredati e ai depositi che lo stesso esercito afgano lascia periodicamente nelle mani dei ribelli. Inoltre, l'eccesso di protezione passiva limita altre caratteristiche come la mobilità e la capacità di vedere e reagire agli attacchi. Gli equipaggi non possono stare perennemente sigillati e in teatri come quello afgano non esiste miglior sensore di chi 'sta fuori' per percepire situazione e pericoli.
È una vulnerabilità? Certamente, ma sempre inferiore a quella che si avrebbe inscatolando i soldati. Già ora tenerli 18 ore al giorno chiusi nelle basi è un modo per renderli ancora più estranei alla situazione; già ora far loro vedere l'Afghanistan solo attraverso il mirino di un fucile o il periscopio di un blindato è un modo per accecarli e renderli sordi, in attesa dello scoppio finale. Finora ogni nostra vittima ha fatto il proprio dovere sino in fondo e ha creduto fortemente nella propria missione. Per questo ogni vittima va onorata e annoverata tra gli eroi anche se ad ogni morto la missione si rivela sempre più confusa. È necessario che qualcuno si assuma la responsabilità di stabilire se si possa lasciare alle pulsioni o alle percezioni di ogni contingente l'iniziativa di scegliersi procedure e priorità, se il sacrificio richiesto ai soldati sia veramente utile all'Afghanistan, agli alleati o all'esercito italiano. O se serva solo alla strumentalizzazione politica, alla retorica alternata rambo/assistenzialista e all'interesse di qualche industriale. Senza questa assunzione di responsabilità, dobbiamo rassegnarci a veder morire i nostri soldati all'infinito, nell'indifferenza o nel cordoglio ipocrita, quasi che la morte sia colpa loro o se la siano cercata. O no?
Politica
30 luglio, 2009Gli afgani non sono tutti talebani. La strategia della Folgore ha compromesso la sicurezza. Ad un prezzo drammatico. Parola di generale
Debole prova di forza
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Insidie d'agosto - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì otto agosto, è disponibile in edicola e in app