L'analisi di Massimo Cacciari : "quello di Bossi è ormai un partito nazionale. Insidioso per tutto il Paese"

Dopo una dozzina d'anni a Ca' Farsetti, Massimo Cacciari sta concludendo la sua 'cerimonia degli addii'. L'ormai ex primo cittadino di Venezia impacchetta libri e documenti ammassati sui tavoli del suo studio affacciato sul Canal Grande. Sindaco-filosofo 'rosso' in un Veneto verde-Lega, la sua riflessione sull'avanzata leghista viene da lontano - Cassandra inascoltata - e l'ultimo tsunami del Carroccio non l'ha stupito più che tanto. Ecco come lo spiega.

Quali sono le principali ragioni del successo leghista al Nord? La maggior capacità di raccogliere l'eredità della vecchia Dc, o quella di rappresentare un 'popolo' meno coinvolto dai processi di secolarizzazione o, ancora, un blocco sociale imperniato sulla piccola proprietà contadina?
"Le analisi fondate sulle specificità del radicamento territoriale, sulla composizione sociale, a suo tempo hanno messo in luce molte verità sulle origini 'storiche' del movimento. Ma oggi non sono più tanto utili a capire la valanga: si deve passare dalla sociologia alla forma politica e alla forma partito. Queste ultime elezioni, la conquista del Piemonte, lo sfondamento anche in Emilia e Toscana, ci segnalano soprattutto una cosa: il movimento di Bossi sta diventando un partito nazionale. Sullo zoccolo duro delle rivendicazioni secessioniste-autonomiste delle origini si è innestata una politica tipica da 'partito della paura', come ne esistono anche altrove, che fa leva su tutti i possibili elementi demagogici-populistici, presenti soprattutto in una fase di profonda crisi, e primo fra tutti la xenofobia".

Ma imprenditori e 'padroncini' del Nord fanno largo uso degli immigrati. Perché poi appoggiano la Lega?
"Loro vogliono degli schiavi, non dei lavoratori, e premiano il partito che, almeno a parole, promette di tenere il territorio in totale sicurezza".

Anche altri, nel centrodestra, si sono dedicati a solleticare i timori ancestrali della gente, ma con assai minore successo della Lega...
"Il Carroccio è anche una formidabile, tetra, macchina da guerra, ciò che non si può dire degli altri: è un esempio clamoroso di centralismo non democratico. E questo comporta grandi vantaggi politici: in un periodo di crisi si sposa con la richiesta di un redentore, di un salvatore, che viene da ampi settori della popolazione".

I più recenti successi, però, sembrano legati a una nuova generazione di leghisti, come Zaia o Cota, più che al carismatico Senatur.
"In realtà il centralismo staliniano ha funzionato benissimo anche per la selezione di una nuova classe dirigente scelta da Bossi fra i fedelissimi. Meglio se preparati, certo, ma il lìder maximo ha dato spesso prova di non pensarci due volte a liquidare quadri anche molto importanti per base elettorale ma con pretese autonome: la Liga Veneta insegna".

Ora che il Carroccio ha vinto il 'derby del centrodestra', ci saranno ripercussioni pesanti sul governo?
"La Lega diventa un formidabile concorrente per l'anima più tipicamente di destra del Pdl. Ma non possiamo dimenticare che in questo partito c'è anche un'ala liberale (che Galan ben rappresentava nel Veneto), un'altra che si richiama all'ex Dc e, infine, quella finiana che ha compiuto un'autentica evoluzione culturale ed è nettamente antagonistica ai leghisti. Non so prevedere come e quanto queste anime possano convivere: molto dipenderà dal Pd".

In che senso?
"Se il Pd non saprà giocare con spregiudicatezza dentro queste contraddizioni del centrodestra è probabile che esse non esploderanno. Prevarrà la pura volontà di preservare il potere che farà premio su idee e ideologie. Per far sì che questa volontà non metta un tappo alle contraddizioni della maggioranza, e per evitare che la Lega raggiunga anche in altre regioni le percentuali stratosferiche del Veneto, il Pd dovrà guardare al centro, con un progetto credibile e condivisibile per rifondare un Paese che va a rotoli, smettendola di flirtare con grillini, dipietristi e compagnia cantante. Ma sono poco ottimista: il partito di Bersani non è federalista, come ho per tanto tempo proposto, e non è neppure centralista. È un mero aggregato di opinioni che non sa parlare con gli individui in un mondo in cui la cultura individualista dilaga e la classe operaia, in quanto tale, non c'è più".