Il nuovo ministro non va giù ai militanti del Carroccio. E anche la legge sulle intercettazioni piace poco. Ma prevale l'atteggiamento fideistico verso il Capo. Fino a quando?

A Pontida, a digerire Brancher

C'è una sensazione che percorre come un brivido la schiena di chi sia stato domenica a Pontida, all'annuale ritrovo del popolo leghista, non da militante ma da osservatore. Ed è lo straniamento di chi non riesca a comprendere fino in fondo se si trovi nel proprio Paese o in quello del "sacro prato", delle tradizioni celtiche e delle statue di Alberto da Giussano alte dieci metri. Un luogo in cui la nazionale di calcio (quella padana) il mondiale l'ha già vinto, e sulle note del Va' Pensiero verdiano (l'inno "amato e basta", non come Mameli, "amato per legge" - recita il motto della Lega Nord Piemonte). Dove al tricolore è stato sottratto il rosso. E dove la parola libertà non significa libertà per l'Italia ma dall'Italia.

Insomma, prima ancora di venire a contatto con una sola camicia verde, sorge prepotente la domanda: ma Pontida è in Italia o in Padania? Il dubbio si insinua nella mente dell'osservatore già sulla strada che incolonna le corriere e le auto dei fedelissimi, quando compaiono "via Padania" e "via Alberto da Giussano" e quando sotto al cartello che indica l'ingresso nella cittadina campeggia la scritta "città del giuramento", in memoria di quel giorno del 1167 in cui la ribellione al giogo di Roma è divenuta – lo ricordano con orgoglio i manuali leghisti - storia.

Ed è ancora la storia ad abitare le bancarelle e l'abbigliamento del popolo di Bossi. Accade così che, tra le folate di un vento affatto primaverile e le gocce di una pioggia che non cesserà per tutto il mattino di sfiancare i presenti, appaiano fumetti in lingua veneta che commemorano la battaglia di Lepanto, il simbolo – evocato qualche tempo fa anche dal quotidiano di partito insieme a un auspicio possa al più presto ripetersi – di un'Europa migliore perché capace di armarsi in difesa della propria identità e scacciare l'invasore islamico. Che si trovino in vendita cartine geografiche della Gallia Cisalpina. E che tra la gente sfilino crociati padani armati di sole delle Alpi e bandiera friulana; guerrieri medioevali che si rifanno a un'epoca che bimestrali come quello presieduto da Mario Borghezio vedrebbero volentieri alla base della costruzione dell' "Europa dei Popoli", ossia di una comunità capace finalmente di abbattere, e cito, "il progetto assurdo di società multietnica".

Le parole che provengono dal palco sono in perfetta consonanza: ci si rivolge a "tutto il popolo guerriero" e il popolo risponde alzando spade di legno; si propone un'alternativa tra il federalismo e la secessione (la dicotomia è dell'ex ministro della Giustizia, Castelli) e da sotto agli ombrelli si leva un boato; facile poi immaginare l'approvazione dei nostalgici in cotta di maglia all'invito del Governatore del Veneto Luca Zaia, definito "il Doge della Serenissima", di continuare la battaglia per esporre in tutti i luoghi pubblici il crocifisso e per saldare la propria identità culturale al trinomio Gesù-Giuseppe-Maria.

La stessa sintonia si ritrova quando dagli ideali si passi all'attualità. Prima di tutto la nomina di Aldo Brancher a ministro del federalismo non suscita dubbi solamente in Umberto Bossi, che si premura subito di ribadire che di ministro per il federalismo ce n'è uno solo (lui) e che a occuparsi di federalismo saranno leghisti doc (lui e Calderoli). «Il passato di Brancher», confida un militante veneto, «non ci piace, perché quello che chiedono gli elettori della Lega è di essere al di sopra di ogni sospetto giudiziario». E poi di lui non c'è bisogno: il federalismo si farà lo stesso, perché lo ha detto il "capo".

Un altro tema caldo dovrebbe essere la legge sulle intercettazioni. Eppure le priorità che vengono scandite dal palco sono ben altre: assicurare che i posti di lavoro vengano occupati prima di tutto dai lavoratori padani, possibilmente – sostiene Zaia – «tramite liste di collocamento differenziate»; tendere una mano agli imprenditori locali, stufi – argomenta Cota – della concorrenza di paesi che «non tutelano nemmeno i diritti umani»; essere "padroni a casa nostra", aiutando gli immigrati, ma al loro paese (basta ai "vu cumprà", che disincentivano il turismo), certificando il luogo di provenienza dei prodotti che consumiamo, decentrando il potere decisionale e amministrativo.

Il federalismo – dicono - potrà essere implementato a "costo zero", e rappresenta l'unico modo per tagliare la spesa pubblica e dunque anche la sola alternativa al "fare la fine della Grecia". Come ammonisce il ministro Calderoli, «se non si fa il federalismo la barca affonda, ma prima di affondare si spezza. A buon intenditor poche parole».

Ecco, le intercettazioni secondo gli umori del popolo leghista sono la giusta contropartita per garantirsi la fedeltà di Silvio Berlusconi – non certo degli odiati finiani, associati ormai alla sinistra, al "partito di Repubblica" e del "Fatto Quotidiano". E, allo stesso tempo, per tenere in scacco il Pdl; del resto, ricorda Castelli, «abbiamo tanti nemici dentro e fuori, senza la Lega il governo non dura un minuto di più».

Ma il bavaglio non è un tema che scalda gli animi. Non qui a Pontida, almeno. «Prima si fa il federalismo», riassume un militante di Reggio Emilia impegnato a sorseggiare una bottiglia di Lambrusco "padano" «e poi si parla di intercettazioni».

La coerenza e la diversità della propria classe dirigente rispetto a quella "romana" sono invece in cima alle preoccupazioni: «Il governatore del Piemonte Cota dovrebbe dimettersi da parlamentare. Non può fare come tutti gli altri».

È questo costante bisogno di marcare la propria differenza dall'Italia a colpire. Ci sono i sindacati padani, le associazioni di volontariato e delle donne padane, lo "scudo padano" (un antifurto) e le bici padane, i sindacati padani e i giovani padani. C'è chi grida "rivolta rivolta" e chi "se-ces-sio-ne" (e sono davvero in tanti). Un giovane "volontario verde" dal cranio rasato sottolinea senza nascondere l'amarezza che Borghezio sia «l'ultimo degli indipendentisti rimasti». «Tu ne vedi, tra quelli del Nord-Ovest?», mi chiede, come se la risposta fosse contenuta nella domanda.

Ci sono le magliette con delle forbici che spezzano lo Stivale sotto l'Emilia Romagna e la scritta "I-Taglia". Ci sono i fischi associati istintivamente al centocinquantesimo anniversario dell'Unità. C'è il proprio inno nazionale cantato dalla propria Miss Camicia Verde di turno e ci sono i propri trionfi sportivi. Come quello della nazionale di calcio gestita da Renzo Bossi (accolto dal pubblico come una star) e fresca vincitrice del suo terzo titolo mondiale dopo un sofferto uno a zero contro il Kurdistan. «Questa è la nostra nazionale», tuona l'annunciatore dal palco appena prima dell'aria di "We are the champions". Non quella che pareggia con la Nuova Zelanda.

E poi c'è Umberto Bossi: il "leader", il "capo", "l'indomito, tenace guerriero" che guiderà la Padania alla battaglia – pacifica, s'intende, perché così conviene – fino a quando non otterrà la sua "libertà". L'uomo che interpreta ed incarna, nonostante la voce incerta e il volto affaticato, il volere del suo popolo. Che riesce a trasformare la poltiglia in "fango sacro". E che ha mutato il disagio di molti in una ideologia con punti cardinali ben precisi, indiscutibili, mandati a memoria come un mantra ("Padania libera", "Padania libera", "Padania libera"). Insomma, ce n'è abbastanza per farne il padre di una nazione. Almeno qui, a Pontida. Domani chissà.

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