Un tiro al bersaglio. Sarà questione da psicanalisi, ma è l'immagine che resta disegnata su un foglietto alla fine del primo drammatico vertice del Pdl dopo la batosta delle amministrative milanesi. L'autore è il ministro Ignazio La Russa, uno che i poligoni di tiro li conosce bene per ragioni di ufficio, si distrae mentre accanto a lui Denis Verdini elenca il bollettino di vincitori e vinti. Un bel tabellone, mancano solo le freccette. "Sono io il bersaglio...", mormora il ministro. Ma si sbaglia: questa volta il bersaglio è più grosso. L'obiettivo di tutti gli attacchi è il leader indiscusso, il Fondatore, il Silvio della canzone, meno male che c'è. E invece era meglio che non ci fosse stato. A Umberto Bossi è stato attribuito un ultimatum esplicito: se non si vince, il governo va a casa. Dopo ore di silenzio, i suoi colonnelli hanno smentito quella frase, ma le tensioni restano.
Impensabile fino a sette giorni fa. Berlusconi, l'ex re taumaturgo che trasformava in vittoria quello che toccava, tutta colpa sua. Letizia Moratti ne è sicura. E lo fanno capire, a mezza bocca, i gregari del Pdl. Un errore candidarsi in prima persona a Milano. "Anche Rommel si fece attirare in battaglia", lo giustifica La Russa, e si sa com'è finita. Uno sbaglio scatenare Daniela Santanchè in tv, il "Giornale" che invitava a votare per Roberto Lassini, il candidato che con i suoi manifesti aveva equiparato le toghe alle Brigate rosse. E il rosario del Cavaliere contro i pm, aver trasformato il voto per Moratti in un referendum su di sé? Un folle autogol politico.
I capi del Pdl in pubblico parlano genericamente di svarioni compiuti da molti, si rinfacciano ripicche e sospetti, ma in realtà pensano a uno solo. "Ma davvero credete che la Santanchè abbia potuto usare quei toni in autonomia, senza essere spinta da qualcuno? La conosco bene, non fa un passo senza autorizzazione", maligna La Russa, amico della pasionaria azzurra. Il mandante va cercato più in alto. "Rispetto al 2006 sono andati a votare 35 mila elettori in più, solo 5 mila di questi hanno scelto la Moratti. Segno che la sinistra è stata più brava di noi a far ritornare gli astenuti alle urne, hanno approfittato del clima di radicalizzazione", riassume il ministro della Difesa. Già: ma venivano dal Pdl il muro contro muro, i toni sguaiati, lo "stronzo" di Umberto Bossi contro Fini, il candidato del Pd a Bologna accusato di essere di origini napoletane dal ministro Giulio Tremonti, "apripista di Alì Babà", e naturalmente i magistrati "eversori, patologia, cancro da estirpare", ripetuto ogni giorno dal capo del governo. E dunque l'autocritica tardiva dei vertici del Pdl riguarda un modo di concepire e di comunicare la battaglia politica. Quello che per 17 anni Berlusconi ha utilizzato - quasi sempre con successo - contro gli avversari politici, tutti in blocco comunisti ed estremisti.
Un sacrilegio mettere in discussione Silvio e il suo modo di fare, prima di quella domenica-maledetta-domenica che ha segnato il crollo del sindaco Moratti a Milano, precipitata al 41,6 per cento, a sette punti dal candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia, e uno sberleffo personale per il premier, votato da 27 mila elettori, la metà delle 53 mila preferenze conquistate nel 2006. Una vittoria della Moratti al primo turno avrebbe spalancato al Cavaliere le porte di una splendida estate: sarebbe suonata come la liquidazione del Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e dell'odiato Gianfranco Fini, un ceffone per i tribunali che si permettono di giudicarlo, il via libera per le prossime leggi sulla giustizia e le nuove nomine di governo e di sottogoverno.
E invece ora quel "dopo", il dopo-B. sempre esorcizzato, sembra aprirsi davvero. Il ballottaggio del 29 maggio a Milano diventa una questione di vita o di morte. "Ma io margini di rivincita ne vedo pochi", sospira il ministro Gianfranco Rotondi: "Ed è stato suicida far partire in anticipo una gara per la successione, far capire che la leadership del centrodestra era a disposizione. L'idea di preparare un percorso che avrebbe portato all'investitura del delfino Angelino Alfano era lineare, ma la Lega si è messa di mezzo, forse pensavano a Roberto Maroni. Ora gli spazi di manovra sono ridotti. E le elezioni l'anno prossimo diventano più probabili".
Si arresta sotto il Duomo la road map berlusconiana che gli strateghi di Palazzo Grazioli avevano immaginato per gli ultimi due anni di legislatura. Rimpolpare il governo con qualche new entry pescata da altri transfughi e con il ritorno a casa della coppia Urso-Ronchi, in fuga da Futuro e libertà. Approvare a tempo di record la legge sulla prescrizione breve anche al Senato e procedere a tappe forzate con il testo Alfano sulla giustizia. E poi la detestata legge sulla par condicio, da eliminare, la legge elettorale Porcellum, da ritoccare, abolendo i premi regionali al Senato, una piccola modifica per impedire al polo Casini-Fini di essere determinante nella prossima legislatura. E chiudere la partita con i giudici, su Mills e sul processo Ruby.
In ognuno di questi passaggi Berlusconi aveva messo nel conto l'ostacolo più duro da superare: il conflitto con Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica aveva già fatto sentire la sua voce sui sottosegretari, chiedendo un dibattito parlamentare che certificasse l'esistenza di una nuova maggioranza. E il premier si preparava a respingere la richiesta del Quirinale, oppure ad affrontare la discussione in Parlamento senza troppi problemi.
Ora, però, quel voto rischia di trasformarsi in una trappola: perché, nel frattempo, l'asse Pdl-Lega è entrato in crisi. E il Carroccio non è più l'alleato blindato degli ultimi anni. "Il partito di lotta e di governo non regge più, alla Lega sta capitando quello che successe al Pci quando si ritrovò in maggioranza con la Dc: gli elettori non capirono e cominciarono a non votarli più", ragiona Rotondi. Bossi, innervosito dal deludente risultato elettorale, potrebbe essere tentato di accelerare il distacco dal Pdl, come gli chiede di fare la base leghista. Oppure potrebbe alzare la posta: nuove poltrone ministeriali, riduzioni fiscali per il Nord, un secondo pacchetto sicurezza, la fine dell'intervento in Libia. E soprattutto il sogno proibito: una staffetta Pdl-Lega, la promessa che nella prossima legislatura, con Berlusconi al Quirinale, un esponente del Carroccio, il ministro Maroni, potrà salire a Palazzo Chigi, il vero obiettivo per cui si muove il Senatur.
Richieste esose che potrebbero avere l'effetto di strappare definitivamente il già logoro tessuto del Pdl. Prima delle amministrative Berlusconi aveva annunciato di essere intenzionato a cambiare nome al partito e nominare un coordinatore unico: Alfano. Ma ora che le cose sono andate male nessuno sembra disposto a fare il passo indietro. "Non sono abituato a dare le dimissioni", replica Verdini a chi gli domanda se debba trarre le conseguenze dal flop di Milano. Un siluro contro il più desideroso di fargli le scarpe, l'ex ministro Claudio Scajola, che con le dimissioni ha una certa dimestichezza. Senza qualche cambiamento, però, l'implosione del Pdl diventerà inevitabile: unita allo smarcamento della Lega sarebbe l'inizio del tramonto del berlusconismo.
Per questo il calendario di fine legislatura per il Cavaliere dopo il ballottaggio cambierà radicalmente: la posta in gioco è la sopravvivenza, in un Palazzo che torna a scommettere sulla crisi e sui governi tecnici. "Sei mesi fa, pur di sbarazzarmi di Berlusconi, avrei appoggiato perfino un governo presieduto da Giulio Tremonti", spiega un fiero avversario del Cavaliere come Bruno Tabacci. "Ma le cose sono andate troppo avanti: serve una fase di tregua che ci porti fuori da questo pantano. Un governo del Presidente, nominato in assoluta autonomia da Napolitano. L'unico che ha il necessario prestigio internazionale per guidarlo, dopo la designazione di Mario Draghi alla Bce, è Mario Monti".
E dire che per il premier questi mesi servivano ad arrivare con i motori accesi alla campagna elettorale 2013. Per Berlusconi doveva essere l'ultima, quella che lo avrebbe portato al Quirinale. La conclusione trionfale della sua avventura politica. E invece eccolo lì, l'uomo di Arcore, sotto processo nei tribunali e sottoposto all'ingrato tiro al bersaglio dei suoi. Con l'incubo di essere costretto a lasciare la sua città, Milano, nelle mani di un "comunista", una beffa della storia. E con un cattivo pensiero difficile da scacciare: che l'ultima corsa si sia consumata in questo radioso e incredibile maggio, all'ombra della Madonnina.