Una frase mi aveva colpito leggendo "noi credevamo", il romanzo di Anna Banti: "una volta tutti i liberali, anche i settentrionali, fossero moderati o democratici, monarchici o repubblicani, tutti tenevano per certo che le iniziative per fondare uno stato moderno in Italia sarebbero dovute partire da Napoli".

La pronunciava il protagonista Domenico, irriducibile cospiratore repubblicano, che non capiva come quella che oggi chiameremmo realpolitik potesse spingere i suoi compagni di lotta a schierarsi per l'idea di un'Italia unita sotto la monarchia dei Savoia. Sembrava sopita, se non spenta, quella irriducibilità, dopo 150 anni di continui cedimenti al realismo politico (in realtà una continua tessitura di compromessi) che hanno sfiancato generazioni di democratici. E invece no, covava sotto la cenere.

Oggi mi appare più chiara una sensazione che avevo provato mesi fa, a Napoli, presentando "Noi credevamo" ai Banchi Nuovi, il centro sociale di disoccupati organizzati. Avevo trovato un luogo incantato, dove si mescolavano persone di età diverse in allegra e partecipe condivisione di speranze e di lotte. Non avevano l'aria depressa e deprimente che negli ultimi anni la città aveva preso a trasmettere. Erano fieri e consapevoli della dimensione "storica" della loro lotta (avevano formato una biblioteca intitolata ad Antonio Neiwiller e a Fabrizia Ramondino) e dopo l'incontro, avevano organizzato una serata di canti e di danze popolari. Una coppia ballava straordinariamente, erano due ragazzi bellissimi che sembravano incarnare la tradizione più antica in un'energia contemporanea.

Lei era moldava, e per amore di lui, un ragazzo dell'entroterra, aveva imparato i passi imposti dal ritmo della tammorra. Quel giorno Napoli non mi era apparsa sporca, né violenta, né dilaniata da lotte intestine, ma viva, intelligente, un luogo possibile e pieno di futuro. Mi sembrava che così fosse perché si trattava di un angolo della città isolato da quella matassa di colpe e complicità che hanno avvinto la cultura berlusconiana egemone nel Paese e una classe dirigente di centrosinistra che invece di opporvisi con modalità radicalmente diverse aveva finito per subirla se non, in troppi casi, imitarla.

Ma mi sbagliavo, non era isolata: con l'elezione di De Magistris è stata la maggioranza dei napoletani a rivoltarsi contro quella matassa. La città assume con questa rivolta una responsabilità enorme, e dico la città, perché stavolta bisogna non compiere l'errore di personalizzare una politica che per avere margini di successo deve essere collettiva. La città dovrà tornare a respirare nel confronto, augurandosi che ci sia qualcuno ai vertici che abbia voglia di confrontarsi e che sappia ascoltare oltre che imporre. Dovrebbe essere possibile, grazie alla vittoria di De Magistris, salvare quanto di buono è stato realizzato dal governo di Bassolino nel campo delle istituzioni culturali (ad esempio il museo Madre), anche se si spera che anche in questo campo si vada in profondità, puntando su spinte artistiche reali e non di immagine, su una Napoli capace di sperimentare e innovare.

Ma il compito più grande sarà quello di recuperare fasce di cittadini che l'immagine camorristica della città ha trasformato agli occhi del mondo in spazzatura umana. Le donne e gli uomini dei quartieri popolari e delle periferie, i giovani disoccupati, costituiscono un serbatoio di intelligenze e di energia che potranno riservare sorprese se si vorrà considerarli cittadini, ai quali chiedere di rispondere dei loro doveri dimostrando di voler garantire i loro diritti, e fornendo una classe dirigente che sappia porsi da esempio. Se queste cose dovessero accadere, sarebbe bello immaginare Napoli, come chiedeva l'irriducibile Domenico: alla guida del nuovo processo unitario che sembra muovere all'improvviso il nostro Paese.

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