Le due riforme fatte dal ministro, quella sul lavoro e quella delle pensioni, non sono compatibili tra loro. E alla fine hanno prodotto un grande pasticcio. Per i lavoratori, ma anche per le imprese. Ecco perché
È molto difficile riformare il mercato del lavoro e le pensioni nel mezzo di una pesante recessione che segue a ruota una recessione ancora più dura. Bisogna dare atto a questo governo di averci provato. Con alterne fortune. La riforma delle pensioni ha raggiunto in gran parte i propri obiettivi: garantisce la sostenibilità della spesa previdenziale, migliorandone al contempo l'equità intergenerazionale. Poteva mettere fine al tormentone pensioni: dopo le grandi riforme del 1992 e del 1996, gli italiani avevano assistito con non poche angosce ad altri cinque micro-interventi di manutenzione del sistema nel 1997, 2004, 2007, 2010 e infine nell'estate 2011. Si sperava che quest'ultimo aggiustamento sarebbe stato quello conclusivo.
Purtroppo la cosiddetta riforma Fornero non sarà l'ultima della serie perché è stata poco attenta alla domanda di lavoro e così nuovi interventi saranno richiesti per affrontare il nodo degli esodati ed esodandi. La riforma non ha neanche posto rimedio alla barbarie dei ricongiungimenti onerosi e ha affrontato in modo brutale il problema dell'indicizzazione delle pensioni. Così, invece di trovare coerenza, di inseririsi in un disegno unitario con la riforma del mercato del lavoro, la rende ancora più pesante per i lavoratori e per le imprese. Il mix diventa alquanto indigesto.
Le imprese si sentono private di flessibilità in entrata proprio mentre si vedono preclusa la strada dei prepensionamenti. E i lavoratori verso la fine della carriera lavorativa vedono allontanarsi la data in cui riceveranno la loro pensione e al contempo vengono a sapere che, nel caso in cui perdessero il posto di lavoro, potranno godere di sostegni pubblici al loro reddito per un periodo più breve. È per questo che le due riforme sono molto più impopolari di quanto avrebbero potuto essere. Per fortuna si è ancora in tempo a renderle maggiormente coerenti tra di loro. Ma bisogna agire in fretta.
DUE RIFORME POCO COMPATIBILI La riforma delle pensioni ha esteso il metodo contributivo, quello che stabilisce l'ammontare della pensione in base ai contributi versati, a tutti i lavoratori. Il metodo contributivo verrà applicato a chi non vi era già soggetto solo a partire dai trattamenti maturati dal primo gennaio 2012 in poi. La riforma ha poi innalzato, a partire dal primo gennaio 2012, l'età minima di pensionamento nel settore pubblico a 66 anni, e a 62 anni, che arriveranno a 66 nel 2018, per le lavoratrici del settore privato. Infine ha trasformato le cosiddette pensioni di anzianità (quelle che permettevano di percepire una pensione piena prima di avere raggiunto l'età minima di pensionamento) in pensioni "anticipate", permettendo l'accesso però solo agli uomini con più di 42 anni di anzianità contributiva e alle donne con più di 41 anni, quindi una platea molto più ristretta di quella prevista dal sistema (a quote) precedente.
Infine ha sospeso per due anni l'aggiustamento all'inflazione delle pensioni superiori a 1.400 euro al mese. L'innalzamento brusco dell'età di pensionamento ha aperto la questione dei cosiddetti lavoratori esodati ed esondandi. I primi sono coloro che prima del 31 dicembre 2011 avevano accettato un piano di ristrutturazione dell'impresa nella certezza di ricevere la pensione al massimo entro due anni e si sono di colpo ritrovati senza salario e senza pensione. I secondi sono i lavoratori coinvolti in esuberi ma ancora occupati (ad esempio in Cassa Integrazione) alla data della riforma e che vedono ora allontanarsi la data in cui potranno accedere alla pensione avendo per giunta la prospettiva di ricevere trattamenti di mobilità al termine della Cassa integrazione per un periodo più breve. Un altro terreno su cui la riforma delle pensioni è in contraddizione con la riforma del mercato del lavoro è quello dei cosiddetti ricongiungimenti onerosi. Il governo non ha ritenuto di poter rimuovere le penalità introdotte da Giulio Tremonti nel 2010 per chi intende totalizzare ai fini del computo della pensione i contributi versati nell'ambito di carriere lavorative discontinue. Si finisce così paradossalmente per colpire proprio i lavoratori che hanno raccolto l'invito, cui si ispira la riforma del mercato del lavoro, a non perseguire il posto fisso, ma ad accettare una certa mobilità e flessibilità nel lavoro.
La riforma del lavoro è stata, sulla carta, molto ambiziosa, affrontando tutti i principali problemi, dall'entrata nel mercato del lavoro alla cosiddetta flessibilità in uscita, dal riordino degli ammortizzatori sociali al dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti a tempo indeterminato. Purtroppo questa ampiezza è andata a scapito della profondità. Molte misure sono inefficaci o addirittura controproducenti. La riforma dei licenziamenti aumenta ulteriormente la discrezionalità dei giudici, come sembra trapelare dalla giurisprudenza sulla nuova legge. Non c'è un allargamento, se non marginale, della platea di lavoratori coperti dagli ammortizzatori sociali e la durata massima delle indennità di mobilità viene ridotta. Chi è rimasto senza lavoro con più di 60 anni si sente così preso tra due fuochi: una pensione che si allontana e sussidi di disoccupazione che si accorciano con scarse prospettive di trovare lavoro.
La riforma fa lievitare i costi dell'assunzione dei lavoratori temporanei senza però creare un vero e proprio canale di ingresso alternativo al mercato del lavoro. Punta tutto sul contratto di apprendistato già esistente, ampliandone il potenziale raggio di applicazione. È un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo e ha vincoli di età che escludono molti lavoratori precari. Dopo la riforma, il contratto di apprendistato non sembra essere affatto decollato nonostante i generosi incentivi fiscali introdotti dalla normativa, tant'è che si pensa addirittura di cambiargli nome. Saranno i dati a dirci a breve quanto la riforma abbia cambiato l'andamento dell'occupazione e della disoccupazione e la loro composizione per età. È significativo il fatto che tutti oggi ne prendano le distanze. E che lo stesso governo di Mario Monti, nel giorno in cui ha chiesto la fiducia sulla riforma, si sia impegnato a cambiarla. In effetti la circolare emessa dal ministro Fornero sui contratti a termine poche settimane fa è tutt'altro che una semplice interpretazione del provvedimento: è già una riforma della riforma.
I POSSIBILI CORRETTIVI Nel caso della riforma delle pensioni non c'era bisogno di attuare un innalzamento così brusco dell'età minima di pensionamento. Sarebbe bastato rideterminare gli importi pensionistici applicando riduzioni attuariali, pari a circa il 2-3 per cento in meno per ogni anno di pensionamento precedente al raggiungimento della nuova età richiesta. Al tempo stesso, si poteva chiedere ai datori di lavoro di versare i contributi sociali per questi lavoratori fino a quando avessero maturato il diritto a una pensione piena. Al di là del caso degli esodati, la riforma non tiene conto delle grandi differenze nei livelli di produttività e nei programmi di vita dei lavoratori anziani. Alcuni svolgono mansioni in cui sono altamente produttivi e motivati, altri magari, anche per ragioni famigliari, preferiscono ritirarsi dalla vita attiva pur sapendo che così facendo percepiranno una pensione più bassa.
Un sistema pensionistico sostenibile può permettere scelte diverse sull'età di pensionamento, posto che chi va in pensione prima (ricevendo un assegno per un periodo più lungo) deve incassare somme più basse. La riforma Fornero invece ha costretto anche quei lavoratori che avrebbero accettato una decurtazione della propria pensione pur di uscire prima a posticipare il pensionamento. Specie in un momento così difficile per il nostro mercato del lavoro sarebbe stato meglio garantire maggiore flessibilità nei piani di pensionamento. Bisognava anche abolire i ricongiungimenti onerosi, permettendo ai lavoratori di totalizzare i contributi versati una volta raggiunti i requisiti per la pensione di vecchiaia. La riforma del lavoro avrebbe dovuto creare un vero canale di ingresso nel mercato occupazionale, modulando i costi di licenziamento in modo tale da renderli gradualmente crescenti con l'anzianità aziendale. Così si sarebbe potuto anche evitare di toccare il regime dei licenziamenti proprio nel mezzo di una recessione.