Marghera, l'altra Venezia, quella industriale e inquinata. In fondo al porto, su una strada frequentata solo dai tir, un ragazzo del Ghana passa a testa bassa su una mountain bike da bambini. Insieme ad altri otto profughi, scappati come lui dalla Libia, vive da più di un anno e mezzo in un vecchio magazzino, trasformato in struttura d'emergenza dalla Caritas. Sarebbe difficile trovare un luogo più isolato: l'ultima fermata del bus dista 45 minuti a piedi, intorno non ci sono che mobili rotti e filo spinato, gli unici passanti sono operai o marinai, rigorosamente in macchina.
«Viviamo qui da giugno del 2011», raccontano a "l'Espresso": «Prima siamo stati a Bibbione, poi una volta arrivati a Venezia non ci siamo più mossi». Più di 500 giorni passati senza far niente, bloccati in terra di nessuno al porto di Marghera: «Incontriamo raramente qualcuno. Viene "il capo" ma dice che non ci può aiutare a trovare un lavoro. Tutto quello che possiamo fare è aspettare il permesso per potercene andare», racconta il più loquace. Parla inglese, ovviamente: «Corsi d'italiano? No, non li abbiamo frequentati».
«Il nostro problema è il futuro» racconta il suo vicino, nigeriano: «Dove andremo quando ci sbatteranno fuori da qui? Non ne abbiamo idea». Hanno 25 anni, uno era macellaio, l'altro operaio specializzato, tutti in Libia lavoravano. Qui non fanno altro che guardare la tv: ne hanno due, collegate col satellitare per vedere le trasmissioni senegalesi. «Ogni tanto andiamo in città, con le bici, ma non conosciamo nessuno», raccontano i profughi: «Per fortuna c'è un ristorante qui dietro. Ci danno da mangiare e sono gentili con noi».
Fuori, ormai, fa un gran freddo, e in città vanno sempre meno. Dentro l'ex magazzino almeno hanno due stanze riscaldate con le stufe elettriche: «Non ci possiamo lamentare. Il luogo è pulito e ogni dieci giorni ci danno 25 euro per fare degli acquisti», commenta uno di loro, aggiungendo, sovrappensiero: «A beggar has no choice», un mendicante non ha scelta.
Si sentono dei mendicanti. Eppure sono scappati da una guerra, e qui vorrebbero solo lavorare ed integrarsi. La situazione dei nove ragazzi del porto di Marghera è la stessa di tanti tra i 17mila profughi libici dimenticati e parcheggiati in centri di accoglienza che dovevano essere una soluzione temporanea durata 22 mesi. Come tutti i migranti contano i giorni che mancano alla fine dell'Emergenza Nord Africa. Ancora un mese e mezzo, poi niente più fondi, quindi niente più accoglienza garantita. Nelle maggiori città d'Italia i richiedenti asilo, dopo due anni di promesse, attese e incertezze, stanno organizzando presidi e proteste. I ragazzi di Marghera invece restano chiusi nelle loro stanze. Come gli altri, aspettano i permessi umanitari che sono stati garantiti dal Ministero dell'Interno, chiedono titoli di viaggio per tornare nel loro Paese o andare in Francia, la terra promessa, o ancora sperano in una nuova proroga dei finanziamenti.
Dopo quasi due anni di emergenza, dopo aver speso un miliardo e trecento milioni di euro per l'accoglienza di 25mila persone, ci si trova insomma a ricominciare da capo. A raffazzonare corsi di formazione in queste ultime settimane, sperando di dare ai profughi un futuro. Succede anche a Marghera. Nell'ingresso della casetta che ospita i nove ragazzi c'è un cartello, con i numeri per le emergenze e un riferimento per i futuri corsi d'italiano. La Caritas prova così a mettere una pezza agli scandali del passato.
A luglio del 2011 infatti, un gruppo di associazioni veneziane era venuta a conoscenza del magazzino del porto, grazie alla segnalazione di un marinaio. Dopo mesi veniva rotto l'isolamento dei profughi: «Quando siamo arrivati la prima volta siamo rimasti sconvolti», racconta Davide Carnemolla, volontario della "Rete tutti i diritti umani per tutti": «Ci dicevano di aver paura, che la notte era impossibile dormire. "Viviamo come animali", ci ripetevano, "Da quando siamo qui non abbiamo incontrato nessuno con cui parlare". Non avevano bici né biglietti per il bus. Molti ci dicevano apertamente di sentirsi in carcere». Nonostante l'attenzione delle associazioni e dei giornali locali, la situazione non migliora, e ad agosto la Caritas decide di ospitare in quel luogo così isolato altre 20 persone. «Finché non sono arrivate le denunce di tre ragazzi per aver subito molestie sessuali da parte di alcuni operai», conclude Carnemolla. Allora il numero di ospiti è stato di nuovo ridotto a nove. Dal settembre del 2011 ad oggi le cose sono migliorate. Ma i profughi continuano a vivere sotto il filo spinato. In attesa di uscire dal limbo.