Tutto il rapporto con gli Stati Uniti va rivisto: dalle regole sulle basi Usa sul nostro territorio alla questione dell'F-35. Noi siamo sempre stati alleati fedeli e leali, ma non possiamo restare supini». Leonardo Tricarico è un generale con un'esperienza unica di militare e una conoscenza diretta della politica: è stato consigliere di tre premier, Massimo D'Alema, Giuliano Amato e Silvio Berlusconi. Ha comandato l'Aeronautica e da pochi giorni ha sostituito il parlamentare pd Marco Minniti alla presidenza della Fondazione Icsa, il più importante think tank italiano sui temi della difesa. Non si può definire un anti-americano: nel 1999 ha diretto i raid della Nato sul Kosovo e Washington gli ha conferito la Legion of Merit, una delle più alte onorificenze. Tricarico non mette in dubbio il legame tra Italia e Stati Uniti, che reputa fondamentale, ma crede che sia giunta l'ora di riequilibrare questa alleanza. «Negli ultimi venti anni c'è stata un'assoluta accondiscenza. Capi di governo come Silvio Berlusconi ritenevano necessario accontentare qualunque richiesta senza nessuna interlocuzione critica, in segno di gratitudine per la liberazione del Paese dall'occupazione tedesca. La storia non va dimenticata ma oggi il mondo è cambiato. Persino la Nato ha mutato natura e alla luce di questi nuovi scenari bisogna ridefinire il rapporto con gli Usa».
È un momento critico nelle relazioni tra Europa e Usa: le rivelazioni sulle intercettazioni dell'Nsa nei confronti degli alleati hanno aperto una crepa profonda. E anche l'Italia sarebbe stata oggetto dello spionaggio.
«Credo che gli Stati Uniti debbano dare spiegazioni convincenti. E sia necessario accertare quali attività di spionaggio abbiano compiuto. Ma la vicenda va inserita in un contesto globale: oggi le incursioni informatiche sono la minaccia più grave, possono mettere a rischio i sistemi che gestiscono servizi fondamentali per la vita di tutti. All'intelligence si uniscono gli attacchi, in uno scenario che è già quello di una nuova Guerra fredda. Per questo bisogna interrogarsi sull'origine di queste rivelazioni».
La vecchia Guerra fredda ha lasciato un'altra eredità nel nostro Paese: quella delle basi americane, da Aviano a Sigonella, che negli ultimi anni sono state addirittura potenziate.
«Ecco, questo è uno dei punti su cui l'Italia deve imporre nuove regole. Non è possibile che esistano parti del Paese che loro interpretano come territorio statunitense: le basi devono passare sotto l'ombrello della Nato, ossia di un'alleanza in cui noi abbiamo un ruolo paritario agli altri partner. Già molte volte le regole esistenti sono state violate o ignorate dagli americani. Io ho guidato la commissione d'inchiesta sul Cermis, la strage del ‘98 che provocò la morte di venti persone. I piloti hanno sfruttato l'autorizzazione concessa a un altro reparto di stanza ad Aviano per compiere quel volo assassino. Era l'occasione per rivedere le norme e c'era il presupposto perché l'equipaggio fosse giudicato in Italia, invece i governi non si sono opposti al processo negli Usa dove c'è stata una sostanziale impunità. Ma ricordo altri casi».
Altre violazioni della sovranità italiana?
«Nel 2003 ci fu l'attacco condotto nel nord dell'Iraq dai parà americani direttamente da Vicenza: un'operazione di guerra di cui il governo venne informato all'ultimo momento e che non rientrava negli accordi. Senza dimenticare quanto è stato accertato dalla magistratura sull'uso dell'aeroporto di Aviano nel rapimento di Abu Omar. Sono elementi che dovrebbero portare a una revisione sullo status di queste basi».
Le basi italiane sono state fondamentali negli ultimi conflitti: dai Balcani all'Iraq, fino alle operazioni sulla Libia dello scorso anno.
«Certo. Ma non c'è mai stato un ritorno politico. Noi siamo stati al loro fianco, spesso in modo acritico, mettendo a disposizione aeroporti e uomini: ci siamo dimostrati affidabili, senza ottenere nulla in cambio. Lo testimonia il discorso del presidente Obama che nei ringraziamenti per la campagna in Libia contro Gheddafi ha citato persino la Danimarca, dimenticandosi dell'Italia. Eppure senza di noi quell'operazione non si sarebbe potuta fare».
Dietro le dichiarazioni ufficiali, però, politici e militari Usa non hanno mai nascosto i dubbi sulla nostra affidabilità.
«C'è un esempio attuale: ci hanno negato la possibilità di dotare di missili i droni Predator acquistati negli Usa. La richiesta è rimasta senza risposta. Noi abbiamo dato prova di lealtà e risolto questioni politicamente impegnative come la missione in Iraq e in Afghanistan o l'ampliamento della base di Vicenza. Loro non si fidano neppure di darci la tecnologia per i Predator».
Le ricadute tecnologiche sono uno dei punti più discussi del programma F-35. In un momento di crisi l'Italia sta investendo parecchi miliardi nel supercaccia made in Usa, ma il nostro accesso ai progetti resta limitatissimo.
«È una questione che va affrontata. Io credo che l'F-35 sia uno strumento importante per l'Aeronautica. Ma l'unica preoccupazione di molti in Italia e negli Usa è solo quella di farci stare dentro il programma, senza curarsi dei vantaggi per il nostro Paese. Il rapporto deve essere realmente bilaterale: non è possibile che si continui a dare senza avere. Bisogna chiedere contropartite chiare, che contribuiscano allo sviluppo della nostra industria».
A cosa pensa in concreto?
«Quali sono i gioielli tecnologici nazionali in questo settore? L'elicottero Agusta Eh-101, il cargo C-27J, l'aereo da addestramento Aermacchi M-346: prodotti d'eccellenza mondiale, progettati in Italia e già sperimentati pure dagli americani. Ebbene, bisogna far sì che abbiano un mercato negli States».
Quale sarebbe la strada da seguire?
«Bisognerebbe avviare subito colloqui per definire tutte le questioni. Ma servono strutture che riescano a fare pesare il sistema Paese: penso a un comitato interministeriale presso la presidenza del Consiglio. E occorre lo sforzo di tutta la classe politica per porsi come un interlocutore maturo nei confronti degli Stati Uniti, affrontando la globalità dei rapporti senza nessun senso di inferiorità».