Avete notato come parla poco il Presidente del Senato? E come (a differenza di Boldrini) si tiene lontano da ogni polemica? No, non è un caso. È che si sta preparando

Pietro o, come lo chiamano tutti, Piero Grasso, ha la toga nel Dna: e, come le scale arricciate del Dna, ha salito i pioli delle istituzioni uno a uno, fino ad arrivare a essere il supplente del Capo dello Stato. Ma c'è da scommettere che non gli basta. Uno che della sua transustanziazione da magistrato a politico disse «per me è un passaggio, con nuovi obiettivi ma senza perdere i miei, di obiettivi»: quale altra palla da insaccare se non il Colle più alto? A maggior ragione nelle ore in cui tutto pare poter crollare da un momento all'altro, lui si gioca questa partita con la scaltrezza del mediano che fu (militò, come Marcello Dell'Utri, nel Bacigalupo Calcio di Palermo), perfetta sintesi di difesa e di attacco, in attesa di costruire l'occasione per arrivare in rete.

A differenza degli irruenti tuffi di pancia dell'omologa Boldrini, Pietro ha un carattere impermeabile all'ora e piuttosto proteso all'attesa. Anche per questo non perde occasione per difendere Letta il temporeggiatore («non c'è alternativa, bisogna andare avanti»), per lodare la saggezza di Napolitano («punto di riferimento, che ci indica un percorso virtuoso dove alla coscienza dei diritti si accompagna l'urgenza dei doveri»), per rivolgere appelli ecumenici alla saggezza e al retto vivere (di solito attraverso parole tronche: libertà, legalità, verità).

Grasso, d'altronde, non è quel neofita di palazzo che Bersani cercò di accreditare. Veste in seta nera dall'eta di 24 anni e ha fatto il giudice nei tribunali di Sicilia, dove giustizia e politica, o politica della giustizia, finiscono spesso per essere necessitati sinonimi.

Poi da Palermo, che onora anche come tifoso rosanero è emigrato nel 1989 a Roma per ricoprire incarichi fuor di Foro, da consulente dell'Antimafia per Chiaromonte e di Violante a collaboratore del gabinetto del Ministero di Giustizia agli affari penali. Dopo Capaci, si trovò a sostituire Falcone come membro della Commissione centrale per i programmi di protezione dei collaboratori di giustizia.

Della carriera calcistica porta nel baule dei ricordi l'uso della melina: solo una volta è dovuto correre in difesa quando Marco Travaglio, il 22 marzo ad 'Annozero', mise in discussione la sua nomina a capo della Direzione nazionale antimafia al posto di Caselli.

Altre polemiche? Poche, qua e là. Quando il ministro Kyenge tentò di riaprire la partita sulla cittadinanza ai figli d'immigrati, lui fischiò il cartellino rosso appellandosi allo "ius culturae" con cui contemperare lo "ius soli", forse per ingraziarsi il Pdl, Poi quando il grillino Nicola Morra citò Napolitano in Aula, lo stoppò sentenziando l'impronunciabilità del nome del Capo dello Stato in un dibattito parlamentare e finendo per provocare un'imbarazzata precisazione dello stesso Quirinale.

Il mutismo istituzionale, invece, vale all'aspirante inquilino del Colle una sorta di indulgenza bipartisan. Gli si perdona la pubblicazione, sul sito del Senato, delle foto del suo volto contrito al funerale di Manganelli (omologhi e predecessori si erano sempre risparmiati l'ostentazione della presenza a esequie illustri), gli si assecondano pure i pacchi di messaggi commemorativi che manda a destra e a manca, con uno zelo da almanacco gotico della storia della Repubblica.

Per onorare la memoria di tutti, non ne dimentica uno, in un prezioso gioco linguistico di variazione sul tema del quale si riporta di seguito un breve campionario. Vibrante, quando evoca «un impegno collettivo che deve trovare nella fede per la democrazia, per la libertà e la giustizia il proprio alimento quotidiano»; oppure definitivo: «La lotta a ogni forma di criminalità prosegue grazie alle forze comuni dello Stato e della società civile che si sono raccolte per combattere questa piaga contro la perfidia e la protervia dei malvagi»; o retorico, quasi alla Sandro Pertini: «L'appello a tutti gli uomini liberi e forti risuona nelle nostre coscienze avvalorando gli ideali di giustizia e libertà»; o infine poetico: «Il profumo di libertà, la sete di trasparenza, devono andare oltre la sua esistenza giungere a tutti noi».

La manciata d'anni che lo fa più cauto e canuto di Laura Boldrini gli serve per interpretare con realismo sornione l'attualità politica e per allungare silenziosamente il passo sul suo futuro. Lei s'affretta a pubblicare in pieno agosto i redditi dei dipendenti di Montecitorio, lui semplicemente ignora il fatto; a Palermo lei va per il Gay Pride, lui per commemorare Falcone e Borsellino; lei risponde da mamma e donna al grido disperato di Davide, gay di 17 anni, lui elogia pubblicamente la tesina di maturità di Filippo, 18 anni, marchigiano di Filottrano.

Su una cosa la Boldrini batte Grasso, certo: l'entusiasmo adolescenziale per i social (su Facebook vince 125 mila "mi piace" a 10 mila; su Twitter lei ha 132 mila follower lui la metà). Ma la strategia dell'uomo, appunto, non insegue la modernità, ma si attesta sulla cautela - sicula - dell'attesa senza lancette.

Una strategia che, tra l'altro, eredita dai suoi predecessori di Palazzo delle ultime legislature: lasciare che a bruciare sotto i dardi dell'attualità sia il collega di turno a Montecitorio, scavandosi intanto una trincea in seconda linea, in attesa della fine. Il trucco è sempre lo stesso, chi poco parla poco sbaglia.

Così, rarefatto tra le nuvole degli ideali, l'ex giudice di Licata aspetta, come recita il motto siciliano, "chi passa la china", che passi la tormenta degli eventi, quasi equidistante dal suo Pd (che per correttezza istituzionale ignora), da Berlusconi (cui non dispiace certo il non esser disturbato, di questi tempi), ma perfino dal M5S.

L'identikit perfetto per un dopo Napolitano, nel caso che le vicende di casa precipitino all'improvviso, portando Re Giorgio a dimissioni anticipate.