Politica
28 ottobre, 2014Il presidente della Repubblica ha tentato di evitare questa incombenza fino all'ultimo. Ma l'interrogatorio è arrivato. E di fronte alla quarantina di persone giunte dalla Sicilia per sapere se ha qualcosa da dire sugli "indicibili accordi" con Cosa Nostra il tentativo del Quirinale è di mantenere tutto nei binari del cerimoniale
Stato-Mafia, i pm al Colle per ascoltare Napolitano sulla trattativa
Banditi telefonini, tablet, registratori. Anche le telecamere, ovviamente, non sono ammesse nel palazzo. I giornalisti fuori, in piazza, sotto il Quirinale, attendono indiscrezioni e ricostruzioni che arriveranno, in attesa della trascrizione ufficiale. Dalle 10 a poco prima delle 14, quasi quattro ore dura la testimonianza di Giorgio Napolitano che ha risposto («anche ad alcune domande del legale di Toto Riina», è una delle prime indiscrezioni) alla procura di Palermo che ha chiesto e ottenuto di sentire il presidente della Repubblica, nell’ambito del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, sugli «indicibili accordi» di cui scrisse a Napolitano l'ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, un mese prima della morte.
[[ge:rep-locali:espresso:285507359]]Per la procura di Palermo la testimonianza del presidente della Repubblica, eventualità prevista e normata dal codice penale, ma mai realizzata finora in un processo in corso, potrebbe aiutare a chiarire se Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni strinsero o meno un patto, se ci fu una trattativa, insomma, negli anni delle stragi. D'Ambrosio, che il 18 giugno del 2012 scrisse a Napolitano di essersi sentito “utile scriba” di “indicibili accordi”, appunto, e gli attentati che la mafia avrebbe progettato nel 1993 contro di Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera, e contro il presidente del Senato, Giovanni Spadolini: questi i temi sul tavolo.
Napolitano ha cercato fino all'ultimo di evitare questa incombenza, giudicata da molti carica di fini politici, prima sollevando il conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, e poi inviando una lettera alla corte d’assise per comunicare di non avere “nulla di utile da riferire” sul processo. Ma i giudici hanno stabilito che si può fare, è previsto e può esser utile, e quindi adesso il Quirinale non può che ridurre il tutto a mero adempimento, con l’aiuto delle rigide procedure di cerimoniale adottate. Però guai, come scrive Marzio Breda sul Corriere, a parlare di qualche "trucchetto": ogni passo della deposizione sarà a disposizione delle parti. Infondate sono dunque le accuse di chi si lamenta per la mancata concessione della diretta tv (proposta anche dallo stesso Corriere della Sera, spesso in linea con il Quirinale, proprio per evitare strumentalizzazioni).
Dall’avvocato di Marcello Dell’Utri, presente nella sala del Bronzino come tutti gli avvocati degli imputati, puntuale, ad esempio, arriva l’appunto: «È uno scandalo», dice all’Huffington post, «che un'udienza così importante non abbia nessuna pubblicità». Anche l’avvocato di Riina, intervistato su Radiodue da Un giorno da Pecora si era detto «assolutamente d’accordo con una diretta televisiva»: «Non si capisce perché il popolo italiano non dovrebbe essere presente in una situazione come questa».
I deputati del Movimento 5 stelle, poi, hanno più volte interrotto la seduta mattutina dell’Aula per chiedere che il Parlamento potesse assistere all’incontro, «per tutelare le istituzioni». Scandalo o meno, è chiaro che la scelta di non garantire la massima trasparenza, non permettendo anche ai giornalisti di seguire in remoto l’incontro, apre la strada a ricostruzioni parziali, e quindi potenzialmente scorrette, basate sulle dichiarazioni che i partecipanti stanno già offrendo alla stampa.
Si apprende così che non sarebbe mai stata usata la parola «trattativa», da Napolitano, né da altri, nel corso della mattinata. Così come, in effetti, non l’ha usata il pm Antonino Di Matteo nell’ultima dichiarazione rilasciata alla stampa: «L'intento è solo quello di approfondire dei fatti, quelli accaduti nel 1992 e 1993, che sono legati alle pagine più buie del nostro Paese». «La mafia» aveva spiegato Di Matteo alla tv internazionale Euronews, «a un certo punto, ha cominciato a capire che gli attentati eccellenti, le bombe pagavano». Le bombe e le minacce, «erano utili perché lo Stato, andando a cercare la controparte, dimostrava di cominciare a piegare le ginocchia».
Sempre secondo le prime ricostruzioni il presidente Napolitano alle domande sulla lettera di D’Ambrosio, avrebbe confermato, come già scritto, di non conoscere i motivi del turbamento di D’Ambrosio. E, secondo il legale del comune di Palermo, avrebbe opposto la riservatezza dei colloqui avuti con l’ex consgliere giuridico. Stando alle parole dell’avvocato dell’ex ministro Nicola Mancino, poi, il presidente avrebbe detto di non essere stato «minimamente turbato» dalle notizie sui presunti attentati del 1993, «perché faceva parte del suo ruolo istituzionale», dei rischi del mestiere.
Il Quirinale però in una nota precisa che il presidente «ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali». E ancora, proprio sul rischio di parziali ricostruzioni, la presidenza della Repubblica «auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l'acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all'opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità».
Twitter: @lucasappino
[[ge:rep-locali:espresso:285507359]]Per la procura di Palermo la testimonianza del presidente della Repubblica, eventualità prevista e normata dal codice penale, ma mai realizzata finora in un processo in corso, potrebbe aiutare a chiarire se Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni strinsero o meno un patto, se ci fu una trattativa, insomma, negli anni delle stragi. D'Ambrosio, che il 18 giugno del 2012 scrisse a Napolitano di essersi sentito “utile scriba” di “indicibili accordi”, appunto, e gli attentati che la mafia avrebbe progettato nel 1993 contro di Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera, e contro il presidente del Senato, Giovanni Spadolini: questi i temi sul tavolo.
Napolitano ha cercato fino all'ultimo di evitare questa incombenza, giudicata da molti carica di fini politici, prima sollevando il conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, e poi inviando una lettera alla corte d’assise per comunicare di non avere “nulla di utile da riferire” sul processo. Ma i giudici hanno stabilito che si può fare, è previsto e può esser utile, e quindi adesso il Quirinale non può che ridurre il tutto a mero adempimento, con l’aiuto delle rigide procedure di cerimoniale adottate. Però guai, come scrive Marzio Breda sul Corriere, a parlare di qualche "trucchetto": ogni passo della deposizione sarà a disposizione delle parti. Infondate sono dunque le accuse di chi si lamenta per la mancata concessione della diretta tv (proposta anche dallo stesso Corriere della Sera, spesso in linea con il Quirinale, proprio per evitare strumentalizzazioni).
Dall’avvocato di Marcello Dell’Utri, presente nella sala del Bronzino come tutti gli avvocati degli imputati, puntuale, ad esempio, arriva l’appunto: «È uno scandalo», dice all’Huffington post, «che un'udienza così importante non abbia nessuna pubblicità». Anche l’avvocato di Riina, intervistato su Radiodue da Un giorno da Pecora si era detto «assolutamente d’accordo con una diretta televisiva»: «Non si capisce perché il popolo italiano non dovrebbe essere presente in una situazione come questa».
I deputati del Movimento 5 stelle, poi, hanno più volte interrotto la seduta mattutina dell’Aula per chiedere che il Parlamento potesse assistere all’incontro, «per tutelare le istituzioni». Scandalo o meno, è chiaro che la scelta di non garantire la massima trasparenza, non permettendo anche ai giornalisti di seguire in remoto l’incontro, apre la strada a ricostruzioni parziali, e quindi potenzialmente scorrette, basate sulle dichiarazioni che i partecipanti stanno già offrendo alla stampa.
Si apprende così che non sarebbe mai stata usata la parola «trattativa», da Napolitano, né da altri, nel corso della mattinata. Così come, in effetti, non l’ha usata il pm Antonino Di Matteo nell’ultima dichiarazione rilasciata alla stampa: «L'intento è solo quello di approfondire dei fatti, quelli accaduti nel 1992 e 1993, che sono legati alle pagine più buie del nostro Paese». «La mafia» aveva spiegato Di Matteo alla tv internazionale Euronews, «a un certo punto, ha cominciato a capire che gli attentati eccellenti, le bombe pagavano». Le bombe e le minacce, «erano utili perché lo Stato, andando a cercare la controparte, dimostrava di cominciare a piegare le ginocchia».
Sempre secondo le prime ricostruzioni il presidente Napolitano alle domande sulla lettera di D’Ambrosio, avrebbe confermato, come già scritto, di non conoscere i motivi del turbamento di D’Ambrosio. E, secondo il legale del comune di Palermo, avrebbe opposto la riservatezza dei colloqui avuti con l’ex consgliere giuridico. Stando alle parole dell’avvocato dell’ex ministro Nicola Mancino, poi, il presidente avrebbe detto di non essere stato «minimamente turbato» dalle notizie sui presunti attentati del 1993, «perché faceva parte del suo ruolo istituzionale», dei rischi del mestiere.
Il Quirinale però in una nota precisa che il presidente «ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali». E ancora, proprio sul rischio di parziali ricostruzioni, la presidenza della Repubblica «auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l'acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all'opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità».
Twitter: @lucasappino
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