Riforme, salta lo streaming Pd-Cinque Stelle. Di Maio: "Esterrefatti ma canale aperto"
Il vicepresidente grillino della Camera fa sapere in conferenza stampa che aspetta il pd per sapere cosa vuol fare sulla legge elettorale. E sul Senato Matteo Renzi deve affrontare la fronda interna
di Susanna Turco
7 luglio 2014
“Esterrefatti per il comportamento di oggi, ma manteniamo un canale aperto per sapere cosa vuole fare il Pd sulla legge elettorale”. Il grillino Luigi Di Maio, in conferenza stampa dopo l’annullamento da parte del Pd dell’incontro previsto per oggi, si mette comodo nella posizione conquistata: quella del bambino che indica la nudità del re, o quanto meno il suo punto debole. La mossa dei Cinque Stelle, che di prima mattina hanno confermato per le 15 il vertice col Pd, sul quale i democratici facevano melina sin da venerdì (“non so se si farà”, aveva detto tre giorni fa Debora Serracchiani), ottiene per la loro parte il risultato voluto.
Dal canto loro i democratici, dopo che il capogruppo Roberto Speranza ha confermato la cancellazione dell’impegno, sottolineano che non era stato fissato nulla: soprattutto, mettono l’accento sul fatto che i Cinque stelle non hanno soddisfatto la loro pre-condizione per l’incontro, evitando di presentare una risposta scritta ai loro dieci punti, il che secondo il Pd avrebbe reso il confronto troppo ballerino. Una posizione piuttosto difensiva, la loro. D’altra parte, c’è da dire che piuttosto insolita è anche quella di Di Maio: il vicepresidente grilllino della Camera, mostrando una inedita fiducia nei confronti dei giornali e dei giornalisti, replica infatti che fa fede la sua intervista di ieri al Corriere (“ho aperto in otto punti su dieci”). In sostanza, sarebbe dovuta bastare quella come risposta. Ma tant’è. Che il confronto Pd-Cinque stelle sull’Italicum sarebbe finito allo stallo era nell’aria da giorni.
Non se la passa meglio l’altra faccia delle riforme, quella del Senato. Da stamani, ciascuna parte in gioco, i leader del patto del Nazareno da un lato e le rispettive minoranze interne dall’altro, ha rinforzato il proprio muro. Corradino Mineo, Vannino Chiti e gli altri ribelli del Pd attendono la riunione di stasera al gruppo per dar fuoco alle polveri, mentre Augusto Minzolini, i senatori vicini a Fitto e gli altri dissidenti di Fi (“siamo almeno dieci”, dice l’ex direttore del Tg1) attendono la (ancora in forse) riunione di domani con Berlusconi per chiudere il cerchio dello scontro iniziato giovedì. A fine mattinata, un gruppo trasversale di senatori (da Mineo a Minzolini passando per De Petris) ha presentato al presidente Grasso una lettera in cui chiede di rinviare le votazioni, il cui inizio è previsto per mercoledì in Aula. Se il clima resta questo, se ne vedranno delle belle.
Di certo, la settimana decisiva per la riforma del Senato (e per il pacchetto riforme in genere) si apre, più che con una discussione politica, con la disposizione delle truppe su un articolato (a tratti confuso) campo di battaglia, tutte in attesa del segnale di “fuoco”. Tanto più perché Renzi conferma di voler tirare avanti dritto. Tra ultimatum e appelli alla responsabilità, ma senza Senato elettivo o altre significative concessioni: qualsiasi passo indietro segnerebbe l’inizio della fine, lo scardinamento di tutto, si argomenta da Palazzo Chigi. E pure con poca voglia, il premier, di farsi impigliare nella rete grillina per quel che riguarda la riforma elettorale, come si è evisto.
E nelle stesse ore in cui la tensione Renzi-Cinque stelle vira in stallo, nel Pd sia Mineo che Chiti confermano la loro contrarietà alla riforma del Senato così come messa a punto dal ministro Boschi. “La maggioranza Pd non vuole senatori eletti dal popolo, ma se Renzi continuerà come un carrarmato sarà responsabile di un errore e gli elettori se ne renderanno conto”, dice Mineo ad Agorà. Chiti ne fa una questione d’impostazione d’insieme: “L'accordo sul Senato è l'altra faccia dell'accordo sull'Italicum. Quindi, in futuro, avremo un Senato in cui ci sono 21 sindaci e 74 consiglieri regionali e una Camera di 630 deputati di fatto nominati e non eletti, perchè si continuerà a votare senza collegio uninominale e senza preferenze. L'Europa può farci un applauso su una cosa del genere?”.
Una visione assai simile a quella che anima il dissenso dentro Forza Italia, dove Minzolini e gli altri restano fermi sul dissenso: "Per quanto mi riguarda, se le riforme non comprenderanno un Senato elettivo io non le votero'"., dice il giornalista. Spiega un ex ministro azzurro, pur favorevole ad andare avanti: “Io li capisco i colleghi che non sono d’accordo. Queste riforme non sono un granché: il senato si trasforma in una specie di dopolavoro, nel quale ciascun partito piazzerà chi vuole, secondo logiche proprie; e l’Italicum è una sorta di Porcellum solo coi collegi più piccoli. Ma il clima è ormai quello di fare le riforme: chi non le fa è un cattivone, e passa sulla lista nera degli elettori”. Proprio per questo Renzi, d’accordo con Berlusconi, di fronte alle resistenze continua a fare “più uno”: ancora un paio di giri di valzer, e sarà chiaro se riuscirà a spuntarla.