Ancora misterioso il “padre” del cavillo Salva Berlusconi ma Delrio ribadisce: «la responsabilità è sempre della collegialità del Consiglio dei ministri». Renzi intanto sospende tutto, pensa a riscrivere la norma e parla d’altro: «Andiamo avanti con la riforma della scuola» dice in un video, cercando di archiviare il caso
Un video sulla scuola. Così Matteo Renzi prova a mettere un punto all’incidente del decreto fiscale, con l’articolo 19 bis, subito ribattezzato “salva Silvio”, che introduce una sorta di franchigia nel reato di evasione. Una soglia del 3 per cento di impunibilità, che cancellerebbe in un momento la condanna e l’interdizione di Silvio Berlusconi.
[[ge:rep-locali:espresso:285512734]]«Da qui al 28 febbraio scriveremo i testi, il decreto e il disegno di legge che presenteremo in parlamento» ha annunciato quindi il premier parlando d’altro, «della più grande riforma partecipata di sempre», della sua «buona scuola». «Se riparte la scuola, riparte il paese» ha ripetuto Renzi, e magari si placano le polemiche sull’articolo 189 bis, comparso all’improvviso, scritto non si sa bene da chi, e approvato dal consiglio dei ministri poche ore prima di Natale.
L’incidente, se incidente è stato e non parte del patto del Nazareno, come sostengono Sel e 5 Stelle, ha però dato
nuova forza alla minoranza interna del partito. E il logoramento determinato dalle riforme che non arrivano, dal jobs act che ha reso flessibile i contratti a tempo indeterminato ma non ha ancora sforbiciato quelli precari, dal caso dell’aereo di stato per la breve vacanza a Courmayeur, non aveva certo bisogno di questo. Perfino
Beppe Fioroni dice la sua, facendo un’ottima sintesi della contraddizione in cui è caduto il presidente del consiglio: «Renzi deve assumersi il coraggio delle proprie azioni. Se ritiene che la norma sia di buon senso, deve difenderla e annunciare che vuole mantenerla. Se invece rinvia la decisione, lasciando accreditare l’idea di un mercanteggiamento, reca un danno alle istituzioni». A se stesso, quindi. Perché è così che ne è uscito Matteo Renzi. Ha detto che la responsabilità è sua - e ci mancherebbere - e poi ha sospeso ogni decisione nel tentativo di dimostrare che il punto non fa parte della trattativa sul prossimo inquilino del Quirinale, né del percorso delle riforme.
Sospesa è quindi la norma, e pronta ad esser modificata. Se
Gianni Cuperlo dice «si ripulisca subito il decreto sul fisco e si posticipi all’elezione del capo dello Stato»,
Paolo Romani di Forza Italia ovviamente tira l’acqua al suo mulino: «La percentuale che era stata fissata al 3 per cento avrebbe potuto essere addirittura superiore», spiega a Repubblica, «perché i grandi evasori di sicuro evadono per una percentuale largamente superiore». Insomma, «per farla breve, quella è una norma di civiltà e sorprende che le organizzazioni imprenditoriali non ne abbiano chiesto la conferma». E pazienza che la norma avrebbe finito per salvare Berlusconi: «È tutto da dimostrare. E comunque come sempre in Italia si pensa che qualsiasi legge che possa favorire il leader di Forza Italia diventi per ciò stesso una norma del diavolo, da depennare, facendo così scontare tutto a ignari cittadini che avrebbero potuto beneficiare degli effetti positivi». «Perché non abrogare anche il jobs act?» si chiede provocatoriamente un’altra forzista,
Deborah Bergamini, «in fondo Berlusconi come imprenditore potrebbe trarre qualche vantaggio dagli sgravi fiscali previsti...». Nel mezzo prende corpo l’idea di un dimezzamento, spostando la soglia tra l'1,5 e l'1,8%. Berlusconi potrebbe comunque goderne (la sua frode nel processo Mediaset è dell’1,2 per cento), ma il provvedimento sarebbe più equilibrato.
Il mistero sulla paternità della norma, intanto, resta fitto. Una delle prime ipotesi, sostenuta da Beppe Grillo e da molti giornali di ieri, è che la manina sia quella di
Antonella Manzione, l’ex capo dei vigili di Firenze che Matteo Renzi ha voluto a palazzo Chigi a capo dell’ufficio legislativo. Poi il sito Dagospia ha pubblicato un retroscena su un incontro prenatalizio per preparare il colpo, una riunione riservata al ministero dell’Economia a cui avrebbe partecipato pure l’avvocato del Cavaliere, il professor
Franco Coppi. La smentita è doppia e categorica: «L'informazione da voi pubblicata relativa al coinvolgimento del prof. Franco Coppi in incontri presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze» scrive a Dagospia l’ufficio stampa del ministro Padoan, che nella vicenda si gioca anche la sua candidatura al Colle, «è destituita di ogni fondamento e frutto esclusivo della fantasia o di malafede». Anche Coppi smentisce la versione («Sono molto curioso di conoscere le fonti, definite attendibili, dalle quali proverrebbe la notizia. Solo la buona educazione e il desiderio di non perdere tempo mi inducono ad astenermi dal commentare questa indegna volgarità e le intuibili ragioni che l'hanno suggerita») e così il mistero resta mistero.
Matteo Renzi e Padoan hanno abbandonato la tesi della “manina”, perché la responsabilità è certa e poco credibile è che sia un oscuro tecnico ad aver sabotato il decreto, come si è scritto e detto nelle prime ore della polemica. «Ridicolo. Parlare di manine e favori nascosti è assolutamente ridicolo» avrebbe detto Padoan, «vi sembra possibile che qualcuno abbia solo potuto pensare di inserire di nascosto un qualcosa di così delicato, credendo oltretutto di farla franca?». Impossibile. Così come quando fioccavano i lodi Schifani o Alfano, o le tante leggi spesso rinnegate dai padri legittimi (come la Cirielli: «Chiamatela ex-Cirielli» disse il deputato di An quando per tutti fu chiaro che si trattava della “Salva-Previti”), la mano è sempre del governo o della maggioranza. Soprattutto perché Renzi, in conferenza stampa, si era detto sicuro, illustrando il testo: «Vado a memoria, l'abbiamo letta tutta punto per punto». Ed ecco che Graziano Delrio non può che dire «quando esce un testo la responsabilità è sempre della collegialità del Consiglio dei ministri. Nel Consiglio il tema è stato dibattuto ampiamente. C'è chi parlava del 3 per cento, chi di una soglia economica di 150 mila euro».
E allora ha ragione l’ex presidente della corte costituzionale ed ex ministro delle finanze del governo Ciampi,
Franco Gallo, ora a capo della commissione tecnica che si occupa del decreto sul fisco, che al Corriere della Sera ha detto: «Ho avuto notizia dell'introduzione del detto articolo 19 bis, nel testo elaborato dalla commissione da me presieduta, solo dopo la seduta del Consiglio dei ministri del 24 dicembre nel quale è stato approvato, appunto, il decreto legislativo. Ovviamente è una scelta politica e noi tecnici non dobbiamo fare altro che consegnare il nostro lavoro alla politica, che poi decide. Però ci vuole trasparenza, e a questo punto non si capisce chi sia stato a Palazzo Chigi a modificare il decreto con un'operazione additiva ed emendativa». Lo scenario arriva dopo una considerazione di merito: «Quella norma» aggiunge Gallo «la ritengo radicalmente errata, tecnicamente e in termini di politica legislativa, perché porta con sé la previsione di una soglia di non punibilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante artificio. E questo non è accettabile. Non solo perché tocca Berlusconi. La frode di per sé richiede una punizione».