Non è un’associazione di associazioni e «non è un partito», come ripete il leader della Fiom. Ma allora cosa ha in mente Maurizio Landini e come guiderà l’opposizione al governo Renzi? Lo spiegano Rodotà, Cecilia Strada e i militanti della «maggioranza invisibile». Il primo risultato, intanto, è lo scontro col Pd, soprattutto bersaniano

«Non ho capito di cosa vi stupite. Mi pare che Maurizio sia sempre stato chiaro: lui è un sindacalista, e quello vuole continuare a fare. Poi, semplicemente, è convinto che il sindacato, rappresentando i lavoratori e battendosi per i diritti, faccia politica, si occupi del destino della gente». Se vogliamo riassumere cosa sta combinando il segretario della Fiom Maurizio Landini, che negli ultimi giorni si è conquistato le dirette televisive e le prime pagine dei giornali con la sua proposta di una «coalizione sociale», l’unica cosa da fare è affidarsi alle parole di un quadro della Fiom, dette al termine del primo incontro convocato dal segretario. Niente giornalisti, salvo qualcuno fidato, difficile da classificare, metà cronista metà militante. Niente esponenti dei partiti, soprattuto.

Sabato la sala era gremita, ma solo di associazioni, militanti di base, esponenti di Emergency, Libera, Libertà e Giustizia. I vecchi comitati per i referendum sull’acqua pubblica. Partite Iva, studenti e ricercatori precari. Nelle prossime settimane continueranno a vedersi, e scenderanno in piazza.
[[ge:rep-locali:espresso:285516865]]
Il 21 marzo a Bologna convocati da Libera, il 28 a Roma per il corteo della Fiom. Poi c’è il 25 aprile, con l’Anpi, e il 2 giugno, con i costituzionalisti. Perché Landini ha questo in mente: mobilitazione sociale. Contro il jobs act, tanto per cominciare, ma non solo. E la riunione l’ha aperta così, ancora una volta: «Oggi non creiamo nessun partito, ma iniziamo insieme un cammino per reagire alla concentrazione di potere politico e sociale, a danno della partecipazione e della dignità del lavoro». Poi ha aggiunto: «vogliamo unire quello che il governo ha diviso». Ma che vuol dire? Se don Luigi Ciotti ha chiarito la posizione di Libera («Non possiamo aderire a nessuna coalizione perché siamo già un’associazioni di associazioni, ma siamo in sintonia con Landini»), altri due protagonisti spiegano l’idea.

Cecilia Strada, figlia di Gino e presidente di Emergency dice così a Repubblica: «Non nasce un nuovo partito, nonostante le illazioni. Non c'è nessun mistero su quello che vogliamo fare, anche se stiamo ancora pensando a che forma avrà quello che oggi è un momento di dialogo fra tante realtà».

«Noi di Emergency» spiega ancora, «possiamo portare il nostro contributo sulla questione dell’assistenza sanitaria, una delle più urgenti, anche in Italia». La molla dell’impegno collettivo è presto detta: «Da tempo assistiamo a un restringimento dei diritti e della solidarietà. È un processo in atto da prima di questo governo ma che sta continuando: certo, magari da un governo di centrosinistra ci si aspetterebbe altro».

Più teorico è Stefano Rodotà, assente per ragioni di salute dalla riunione nella sala della Fiom, ma con Gustavo Zagrebelsky uno dei professori di riferimento e più impegnati: «L’espressione “coalizione sociale” può avere diversi significati», scrive domenica ancora su Repubblica, «ma oggi individua un progetto concreto di collaborazione organizzata di molti soggetti attivi nella società». Il piano è «mettere in comune queste esperienze», per «definire le modalità di lavoro e i temi sui quali impegnarsi con azioni concrete».

Il tutto per «creare una massa critica politicamente rilevante», dice Rodotà, e questo concetto lo possiamo riassumere con l’espressione «maggioranza silenziosa» (che incontreremo più avanti, con le parole di Emanuele Ferragina). Spostandosi sul piano politico, Rodotà continua così: «Saremo di fronte ad una discontinuità importante anche rispetto ai tentativi perdenti affidati ad improvvisate liste elettorali o a scimmiottature di esperienze straniere». «Solo dopo questo diverso radicamento sociale, culturale e politico, verrebbe legittimamente il tempo di una discussione generale sulla rappresentanza e, se così si vuole chiamarla, sulla leadership».

Rodotà conosce bene le insidie: «La fretta», sì ma anche «il fatto che i diversi gruppi sono prigionieri di logiche paralizzanti: la sopravvivenza, ad esempio, per Rifondazione comunista; l’appartenenza, per Sel e la variegata galassia delle minoranze del Pd». Una lettura da osservatore esterno arriva da Fausto Bertinotti, ex segretario di Rifondazione comunista che all’Huffingtonpost dice «quella di Landini mi sembra una efficace e brillante individuazione di un percorso di politicizzazione dei movimenti senza dover battere la scorciatoia della formazione del partito politico. È una rottura degli schemi tradizionali, non prevede scissioni e percorsi arcinoti che appartengono al passato. Punta ad una coalizione sociale che non ha come obiettivo il consenso, ma invece parte dal consenso sociale e conflittuale e riesce così ad avere una sua vocazione maggioritaria fuori dagli schemi istituzionali in cui Renzi stravince e la sinistra è prigioniera».

Per chi volesse approfondire c’è comunque un testo, da leggere, citatissimo in queste ore da militanti e sostenitori dell’area della sinistra: La maggioranza invisibile, appunto, edito da Rizzoli, del sociologo Emanuele Ferragina, un cervello in fuga prima a Oxford oggi alla SciencesPo di Parigi. Così Ferragina sintetizza la sua teoria: «La maggioranza invisibile è costituita da cinque gruppi che vivono pesanti condizioni di svantaggio: i disoccupati, i neet, i pensionati meno abbienti (quelli che percepiscono meno di mille euro al mese), i migranti e i precari. Si tratta 20 milioni di votanti, se escludiamo i migranti, a fronte di 47 milioni di aventi diritto al voto e dei circa 34 milioni di votanti alle elezioni politiche del 2013». A conti fatti, «un partito politico o movimento sociale capace di mobilitare una parte sostanziosa di questa maggioranza attraverso un progetto politico articolato e coerente, potrebbe sconvolgere la geografia politica ed elettorale del paese».

Ecco spiegata, ancora una volta, l’idea di Maurizio Landini. A ottobre quando uscì il saggio di Ferragina anche il dissidente del Pd Pippo Civati ne consiglio la lettura, con un post sul suo blog: «Una maggioranza a cui la sinistra, insisto», scriveva, «dovrebbe guardare, piuttosto che perdersi – implodendo – in un inutile dibattito sulle etichette, sulle correnti, sugli equilibri del Palazzo».
[[ge:rep-locali:espresso:285516866]]
Il consiglio di lettura non è certo che sia stato raccolto, però, perché dal Pd alle ultime mosse di Landini si sono registrate uscite piuttosto critiche. Il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, già bersaniano, ha detto secco, con tanto di lapsus: «Io non credo che il futuro della sinistra abbia senso in un campo antagonista che si basa sulle urla di Salvini», ops, «Landini».

L’analisi è condivisa. «'Non so se esiste una coalizione, lo dice Landini: so che esistono le sue urla», fa eco il ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina, Poi ci sono i parlamentari. Uno per tanti: Marco Miccoli, deputato, sempre bersaniano, romano, è sarcastico su facebook.
 
Non certo amichevole è la replica dell’interessato: «Più che stare attento ai decibel, io sto attento a quello che dicono e fanno. Invito a non scordarsi che questo parlamento, in particolare il Pd, ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Sono cose un po’ peggiori delle urla».

Segue una dichiarazione di Nichi Vendola, leader di Sel: «Se la sinistra Pd si accontenta di vivere nello spazio del penultimatum rischia di essere un soggetto incomprensibile al Paese che chiede qui ed ora risposte diverse», dice da Casera, domenica, «è invece giusto che tante sinistre, nel sociale e nella politica, provino a movimentare la scena, a ricordare cosa significa veramente alternativa».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso