Regione che vai, legge elettorale che trovi. A Roma, nell’aula di Montecitorio,
Matteo Renzi mette la fiducia sull’Italicum, mossa con rarissimi precedenti nella storia repubblicana, e manda in frantumi il suo partito, il Pd, pur di portare a casa il risultato, l’approvazione della legge che permetterà agli italiani di conoscere il nome di chi ha vinto le elezioni «la sera del voto», come recitano i suoi sostenitori. Nelle sette regioni che vanno alle elezioni
domenica 31 maggio, invece, non è affatto scontato che il vincitore sia designato dalle urne in modo indiscutibile.
Negli ultimi mesi i consigli regionali, autonomi in materia elettorale, hanno lavorato per complicare le cose, sulle spoglie della vecchia legge elettorale, il Tatarellum, che concedeva un premio in seggi al candidato-presidente vincente ed era uguale per tutti, dalle Alpi allo Stretto.
Ora invece ogni regione fa storia a sé.
In Toscana, per esempio, la regione del premier, è stato introdotto il doppio turno modello Italicum: se nessuna coalizione supera il 40 per cento si torna a votare due settimane dopo.
In Puglia ci sono tre soglie: se la coalizione vincente supera il 40 per cento dei voti conquista 29 seggi (su 50), se supera il 35 per cento ottiene 28 seggi, sotto il 35 si ferma a 27 seggi, pericolosamente vicini alla maggioranza di 25 seggi. Tutto chiaro? Speriamo di sì, perché adesso arriva il difficile. Con la legge elettorale della regione Marche.
In riva all’Adriatico, infatti, i partiti marchigiani hanno escogitato una specie di tombola. Se esce il numero 40, ovvero la coalizione che è arrivata prima ha superato la soglia del quaranta per cento, il premio è di 18 seggi (su 31), se si ferma tra il 37 e il 40 per cento prende 17 seggi, se si blocca tra il 37 e il 34 il premio di maggioranza si abbassa pericolosamente a 16 seggi. E se nessuno ha raggiunto almeno il 34 per cento non c’è nessun premio, la legge elettorale si trasforma in una proporzionale pura in cui ognuno farà per sé. Un tecnicismo? Un sudoku per maniaci di leggi elettorali? Mica tanto. Solo con questo marchingegno si spiega un evento altrimenti incomprensibile e mai visto neppure nella creativa politica italiana.
Il passaggio del presidente uscente Gian Mario Spacca, dopo dieci anni di governo, dal centro-sinistra a una coalizione di moderati con i berlusconiani di Forza Italia e i centristi di Angelino Alfano. Per motivare la sua acrobazia, Spacca ha evocato il cane a tre teste Cerbero e perfino don Lorenzo Milani: «Non sono io, è il Pd che ha tradito. I veri traditori sono i suoi dirigenti che hanno abbandonato un serio progetto di buongoverno per le Marche». Ma non c’era bisogno di scomodare il prete della disobbedienza civile, per capire le mosse di Spacca. Basta consultare la legge elettorale: se nessuno supera quota 34 per cento diventa inevitabile una grande coalizione tra il primo classificato e il miglior perdente. Il candidato del Pd Luca Ceriscioli potrebbe essere costretto a tornare a patti con il fuoriuscito Spacca. Scenario più che possibile, con la presenza della lista del Movimento 5 Stelle.
La seconda stranezza dei consigli regionali che saranno eletti il 31 maggio riguarda il numero dei loro componenti. Negli ultimi anni i consiglieri regionali sono stati presentati in pasto all’opinione pubblica come inutili scrocconi, nel migliore dei casi. Le indagini della magistratura sull’utilizzo dei fondi per le attività dei gruppi consiliari hanno fatto il resto. Un anno fa “l’Espresso” aveva conteggiato 521 consiglieri regionali sotto inchiesta da parte di ben 14 procure. Soltanto in Lombardia sono 56 gli ex consiglieri regionali rinviati a giudizio per truffa e peculato, tra loro anche l’igienista dentale cara ad Arcore Nicole Minetti e il figlio del Senatur della Lega Renzo Bossi, detto il Trota. In Emilia, dove si è votato in autunno, gli avvisi di garanzia di fine indagine sono 41. Nella Campania che va al voto a fine maggio sono otto i consiglieri regionali di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio, dopo 52 avvisi di garanzia per le spese pazze. Ma non c’è solo l’aspetto giudiziario della questione. Sotto accusa ci sono l’istituzione Regione in quanto tale e le assemblee regionali considerate formidabili macchine da spesa pubblica, apparati elefantiaci e gonfi di risorse. Un miliardo di euro, aveva stimato nel 2013 l’economista Roberto Perotti, oggi consigliere di Palazzo Chigi per la spending review: 230 milioni per i compensi dei consiglieri regionali, 170 milioni per compensi e vitalizi, cento milioni per i fondi ai gruppi consiliari dei partiti. Ogni consigliere regionale, in media, costava 200mila euro.
Per rimediare, o almeno ostentare buona volontà, ogni classe politica regionale nella sua autonomia ha cominciato a sforbiciare spese e sprechi. Ed è stata obbligata da una legge nazionale a mettere nel mirino il numero dei consiglieri regionali. Il decreto 138 del 2011, approvato dal governo Berlusconi nel pieno dell’estate della tempesta finanziaria e dell’attacco della speculazione internazionale contro l’Italia, ha fissato i criteri demografici di riduzione dei consigli regionali. In Puglia i consiglieri regionali erano 70, sono stati ridotti a 50. In Toscana sono scesi a 40. Nelle regioni con meno di due milioni di abitanti sono scesi a 30, con meno di un milione di abitanti a 20. Con effetti paradossali, però. In Liguria, dove si combatte la sfida più incerta, con quattro candidati in gara, la renziana Raffaella Paita, il berlusconiano Giovanni Toti, il deputato fuoriuscito dal Pd Luca Pastorino, amico di Pippo Civati, la candidata del Movimento 5 Stelle Alice Salvatore (i sondaggi danno in parità i primi due e sopra il venti per cento i grillini), i consiglieri regionali da eleggere saranno appena trenta. Nelle Marche del presidente uscente Spacca i consiglieri regionali superstiti resteranno in 31. E nella piccola Umbria soltanto in venti, meno di due squadre di calcio: dodici alla coalizione di maggioranza, otto a quella di minoranza, il partito più votato potrà al massimo vedersi assegnare dieci seggi. «Se vinco io», spiega la presidente uscente Catiuscia Marini del Pd, sfidata dal sindaco di Assisi Claudio Ricci (Forza Italia), «mi troverò a governare con un consiglio regionale in cui il numero legale è di undici seggi e una legge regionale può essere approvata anche da sei-sette consiglieri». Con il rischio che la giusta esigenza di tagliare i costi della politica finisca per paralizzare l’attività delle assemblee regionali: bastano due o tre assenti e si blocca tutto. Per non parlare del lavoro in commissione, trasformate in micro-commissioni per pochi intimi.
L’ultima novità, la più grossa, si incrocia con il cammino della riforma costituzionale a Roma. Tra i consiglieri regionali sarà eletto di diritto anche il miglior candidato presidente perdente: dovrebbe ricoprire l’incarico di speaker dell’opposizione, ma con un pizzico di abilità e di fortuna i presidenti perdenti si ritroveranno tra le poltroncine rosse di Palazzo Madama, beneficiati dal titolo di senatori.
Quelle del 31 maggio, infatti, sono le prime elezioni regionali in cui i candidati possono ambire a un seggio da senatori. Se la riforma costituzionale del governo Renzi dovesse superare l’ostacolo delle prossime due letture del Parlamento e del successivo referendum popolare confermativo, i futuri inquilini di Palazzo Madama sarebbero scelti all’interno dei consigli regionali. Nella riforma del ministro Maria Elena Boschi nel nuovo Senato delle autonomie sono previsti 74 senatori scelti dai consigli regionali al loro interno, nessuna regione avrà meno di due senatori. Sembrano prospettive lontanissime, ma per i professionisti della politica più smaliziati le grandi manovre sono già cominciate. Il posto in Senato, offerto, promesso, è un’ottima merce di scambio politico, anche perché chi lo occuperà sarà protetto dall’immunità parlamentare (privilegio negato invece agli altri consiglieri regionali). E così in Campania, qualche settimana fa, nella trattativa tra il Pd nazionale e il candidato che ha vinto le primarie Vincenzo De Luca, si è parlato di un ritiro dalla corsa del sindaco di Salerno (condannato in primo grado per abuso di ufficio e dunque a rischio sospensione dalla presidenza della regione in caso di vittoria ai sensi della legge Severino), in cambio di un seggio al Senato. Per De Luca era già pronta la candidatura al consiglio regionale campano con la promessa di una promozione a Palazzo Madama, ma il sindaco di Salerno ha preferito non rischiare: se sarà eletto presidente della regione si conquisterà il posto da senatore senza appoggi romani. Strategia condivisa dal candidato del pd in Puglia Michele Emiliano: se davvero la riforma Renzi-Boschi dovesse portare i consiglieri regionali a eleggere al loro interno i futuri senatori chi potrà impedire all’ex sindaco di Bari di candidarsi a rappresentare la sua regione nel nuovo Senato?
Le elezioni della primavera 2015 stanno distruggendo i partiti, nella Lega c’è stato il divorzio tra Luca Zaia e Flavio Tosi in Veneto, nel Pd c’è la divisione in Liguria, nel centro-destra la guerra fratricida in Puglia. Ma segnano anche la fine della lunga stagione cominciata nel 1970, quando le regioni furono istituite dopo una lunga battaglia in Parlamento e nei partiti. All’epoca apparirono come una conquista democratica, fortemente voluta a sinistra. Oggi, quarantacinque anni dopo, le regioni sono per la quasi totalità dei cittadini sinonimo di spreco e da più parti se ne invoca lo scioglimento e l’accorpamento in macro-regioni, come sognava il professor Gianfranco Miglio, ideologo della Lega allo stato infantile. In Parlamento è depositata la proposta del deputato Pd Roberto Morassut, portare le regioni da 20 a dodici. E trova inaspettati sostenitori nel club dei governatori regionali: il presidente della Campania Stefano Caldoro (Forza Italia) non perde occasione per ripetere che le regioni vanno sciolte. Nell’attesa, però, a fine maggio i cittadini saranno chiamati a eleggere mini-consigli regionali con un esercito di candidati per pochissimi posti. Regioni formato bonsai, nel ceto politico ma non nelle spese, pallido ricordo di quello che furono in altre stagioni. Guidate da una classe dirigente pronta a reincarnarsi nella nuova fase: oggi consiglieri regionali, domani senatori.