Giorgia Meloni si è imbavagliata per protestare contro l’Ufficio anti discriminazioni razziali, un organismo di palazzo Chigi, del dipartimento delle Pari Opportunità. L’Unar sarebbe colpevole di aver inviato una lettera all’ex ministro e deputata per “censurare” alcune sue recenti dichiarazioni in tema di immigrazione. La lettera, che spiega come «una comunicazione basata su generalizzazioni e stereotipi non favorisca l’integrazione e la coesione sociale», si conclude con l’invito a «considerare per il futuro, l’opportunità di trasmettere alla collettività messaggi di diverso tenore».
Meloni, che effettivamente sul tema fa concorrenza a Salvini, si è appellata al presidente della Repubblica, perché tuteli la libertà di parola dei cittadini e dei parlamentari. Palazzo Chigi ha prontamente chiesto chiarimenti al direttore dell’ufficio. In attesa, è curioso notare il fatto che l’Unar - «un ufficio del governo che paghiamo con i soldi degli italiani», lo sminuisce Meloni - sia stato istituito nel 2003, dal secondo governo Berlusconi. Giorgia Meloni non era deputata, ma ministro delle Pari Opportunità era Stefania Prestigiacomo. Maurizio Gasparri era ministro delle Comunicazioni. Oggi, in solidarietà con Meloni, dice anche lui che l’Unar è «una struttura che danneggia l'Italia e che va soppressa senza esitazione».
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È comprensibile, però, che Giorgia Meloni non abbia potuto resistere alla tentazione di indossare un bavaglio, sotto una qualche istituzione pubblica. Un po’ come gli scioperi della fame - l’ultimo è del sottosegretario Ivan Scalfarotto che ne ha fatto uno per avere dal suo stesso governo una data certa di approvazione della legge sulle unioni civili - il bavaglio è inflazionatissimo. Un must irrestistibile per attivisti e parlamentari.
Come per i digiuni, il campione indiscusso è Marco Pannella. Nel 1978 il radicale passò 25 minuti con bavaglio e cartello al collo, al fianco di Emma Bonino, Mauro Mellini e Gianfranco Spadaccia in diretta tv. In silenzio assoluto, per protestare contro la scarsa informazione in occasione dei referendum sul finanziamento pubblico, sulla legge reale e sull’aborto. Lo schema è stato ripreso più volte, una anche per interrompere la messa in onda del Tg2. Sempre per le presenza televisive, anche l’ex Pm Antonio Ingroia, ai tempi della candidatura con Rivoluzione civile, si imbavagliò sotto palazzo San Macuto, per protestare «contro la decisione della Commissione di Vigilanza Rai di privilegiare la presenza in tv dei leader di coalizione Bersani, Monti e Berlusconi». Altro incauto imitatore è stato recentemente l’ex ministro del governo Monti, Corrado Passera. Il tecnico protestava però contro l’Italicum, chiamato per l’occasione “Legge Cerotto”. Cosa c'entri il bavaglio con il cerotto non è chiarissimo, ma pazienza.
Un bavaglio tricolore era invece quello usato dalla senatrice 5 stelle Paola Taverna e dai suoi colleghi durante il dibattito sulle riforme costituzionali. Il Senato non è nuovo a certe trovate in favore di fotografi. I senatori Idv, nel 2010, fecero lo stesso durante il dibattito sulla riforma della scuola. Durante il dibattito della legge sulle intercettazioni, invece, sempre i dipietristi usarono dei post-it per tapparsi la bocca: per rendere meglio il concetto, ci scrissero sopra “No bavaglio”, slogan della mobilitazione contro quella legge di Berlusconi.
Il bavaglio però è buono per ogni battaglia. Se Scalfarotto ha fatto lo sciopero della fame, infatti, i manifestanti del movimento UominiDonneBambini si sono imbavagliati proprio contro la legge Scalfarotto, l’arenata legge anti-omofobia. In quel caso, agitando cartelli contro la fantomatica “teoria gender”, i censurati rivendicavano - evidentemente - il diritto all’omofobia. Anche il leghista Sergio Divina non ha resistito alla moda. Divina, noto per aver proposto di istituire, quando era consigliere provinciale a Trento, «vagoni riservati agli immigrati» sui regionali dei pendolari, si è tappato la bocca contro Piero Grasso, come i 5 stelle.
Ancora memorabile è infine il bavaglio di Giuliano Ferrara che imbarazzò non poco la collega Ritanna Armeni, con cui Ferrara conduceva Ottoemezzo su La7. «Mi imbavaglio e taccio» disse Ferrara, restando in silenzio per tutta la trasmissione, in segno di protesta in solidarietà con Silvio Berlusconi a cui accese polemiche avevano suggerito di rinunciare a una comparsata tv, in tempi di par conditio, senza oppositori in studio. Ovviamente sulla sua Canale 5. Una strana censura.
Twitter @lucasappino