Dunque dovrà deve essere il Parlamento a occuparsi della libertà di ricerca scientifica sugli embrioni. Così, con quello che è stato definito “un atto di umiltà” verso il legislatore data la complessità del tema, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibileil ricorso che chiedeva di eliminare il divieto di donare a fini di studio quelli non idonei all'impianto. Solo che, a giudicare dall'attenzione della politica, non c'è da molto sperare. Anche perché il governo di Matteo Renzi - che vede peraltro alla Salute un ministro come l'alfaniana Beatrice Lorenzin, che sulla modifica della legge 40 imposte in passato dalla Consulta ha fatto forti resistenze - ha intenzione di toccare il meno possibile. E nel Pd nessuno pare aver nulla di ridire, considerato il silenzio calato da tempo sul tema.
Questione di colore degli esecutivi, evidentemente. Perché quando a Palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi, la sinistra sventolava come un vessillo la necessità di abrogare la legge 40 sulla fecondazione assistita, che nel 2005 fu oggetto di un referendum in cui la sinistra si spese molto. Come mai tanto fervore? Non esclusivamente, ma certo anche perché aveva il vento in poppa: appena un mese prima alle amministrative la coalizione aveva vinto in 14 regioni su 16 e l'anno seguente erano previste le elezioni politiche.
Come ha ricordato in questi giorni il presidente dei Radicali italiani Marco Cappato, che promossero la consultazione popolare, pure se in ritardo l'allora segretario dei Ds Piero Fassino (e con lui molti altri dirigenti tuttora in sella) schierò la Quercia a favore della battaglia abrogazionista e partecipò coi banchetti alla raccolta firme. Il partito si impegnò con un documento ufficiale a favore di “una forte iniziativa di informazione e confronto sui temi del referendum sulla fecondazione assistita” e le donne furono in prima file nel comitato per il “sì”. Dove si distinse Enrico Morando, ora viceministro dell'Economia. Come andò a finire è noto: il voto fu trasformato dalla Chiesa e dalla Casa delle libertà in una crociata ideologica che si concluse con un naufragio astensionista (il 26 per cento appena di partecipazione alle urne), grazie anche all'invito rivolto ai “cattolici adulti” dalla Cei di Camillo Ruini a restare a casa.
Rileggere le parole infervorate di quei giorni del 2005 fa un certo effetto rispetto alla sostanziale indifferenza odierna, visto che uno dei quattro quesiti referendari riguardava proprio la libertà di ricerca sugli embrioni. “Quello della procreazione assistita è un tema che non riguarda qualche élite ma tutto il Paese” affermava Fassino. “La legge va assolutamente migliorata” aggiungeva Pier Luigi Bersani, all'epoca responsabile del programma. E Gianni Cuperlo, che curava la comunicazione, non era da meno: “Noi ci siamo, i Ds faranno la loro parte con la profonda convinzione che si tratta di una battaglia giusta”.
Nella Margherita, invece, dietro la libertà di coscienza, tante manovre per non perdere i voti cattolici: da Dario Franceschini (“voterò ma non dico come”) a Francesco Rutelli, che alla fine restò a casa, incassando le lodi della Cei e della Casa del centrodestra. Quando poi il referendum fallì, dai Democratici di sinistra si levò l'appello: “Il Parlamento non ha le mani legate e può tornare su questi temi correggendo la legge. Non finisce qui”.
Come è andata a finire invece si è visto: nell'incapacità della politica, c'è voluta la Corte costituzionale per cancellare il limite alla produzione di embrioni (2009), eliminare il divieto della fecondazione eterologa in caso di sterilità assoluta (2014), renderla possibile per le coppie portatrici di malattie genetiche e consentire la selezionare gli embrioni per evitarle (2015). E quale anima abbia prevalso nella fusione che ha dato vita al Pd si vede da come il tema è scomparso dal dibattito politico. Come più in generale tutti i diritti civili. Anche per la freddezza di Renzi, che - oltre a dover fare i conti con Ncd - al massimo li considera un modo per fare “qualcosa di sinistra” come nel caso del ddl Cirinnà.
Col paradosso che ai difensori “ideologici” della legge 40 va quanto meno riconosciuta la coerenza di continuare a sostenere (e cercare di cambiare il meno possibile) quel che ne resta, mentre pare difficile dire altrettanto a sinistra, dove la sensibilità sembra dipendere più che altro dal colore del governo in carica.