La chiamata all'astensione, il risultato del voto popolare, l’irrituale comportamento di Mattarella, la perenne ricerca di Renzi di una legittimazione a posteriori. L'analisi di Michele Prospero: «Siamo in un sistema politico a demagogia incorporata, che ha fatto del populismo un tratto di sistema e non più una devianza»

Professore di scienza politica e filosofia del diritto dell’università La Sapienza di Roma, Michele Prospero non ha certo simpatia per Matteo Renzi, a cui ha dedicato un saggio, Il nuovismo realizzato, l’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, molto letto a sinistra del premier e apprezzato dalla minoranza dem che pure finisce però bacchettata dal professore - che con Bersani segretario era un editorialista di punta de l’Unità - perché dovrebbe, per Prospero, «assumere un dato di inconfutabile realtà: il Pd non ha più nulla di sinistra».

Prospero è uno a cui piace la «vecchia politica», con cui tanto se la prende il premier: «Non c’è nulla di più vecchio», precisa però il professore, «che stare al potere senza alcuna legittimazione, cercandone ogni giorno a posteriori, forzando forma e sostanza della democrazia, come ha fatto sulle trivelle e come farà sul referendum costituzionale».

In libreria con La scienza politica di Gramsci, ultimo saggio, l’Espresso ha chiesto a Prospero come leggere il risultato referendario, con la vittoria rivendicata da Renzi, con buone ragioni, e però anche da Michele Emiliano, contento di contare quasi 16 milioni di votanti.

Dunque Prospero, chi ha vinto?
«Il referendum è fallito, tecnicamente, per il mancato raggiungimento del quorum, e questo è innegabile. Ma io penso sia significativo, dal punto di vista politico, il fatto che oltre 15 milioni di cittadini siano andati alle urne sfidando una campagna a favore della diserzione che arrivava dall’alto, battente: è una mobilitazione che ha dello straordinario».

Dunque Renzi ha vinto formalmente, pur grazie all’escamotage dell’astensione, ma sbaglia a sottovalutare il dato della partecipazione, con i sì all’85,8 per cento?
«Dovrebbe ricordarsi, Renzi, che l’esercizio del potere che gli è concesso in questa fase, questo dispotismo di minoranza, si basa su un numero di voti che è poco più della metà degli elettori che sono andati a votare contro il suo parere. Il Pd nel 2013 ha preso 8 milioni e 600mila voti e anche alle Europee, che per mesi sono stato il vanto del presidente del consiglio, la sua prima “legittimazione”, i voti furono 11 milioni, sempre meno dei soli sì di domenica».

Molto si è scritto dell’appello all’astensione del premier. Lei è però rimasto molto colpito dal comportamento di Sergio Mattarella….
«Quello di Mattarella è stato un comportamento francamente irrituale, mai si era visto un presidente della Repubblica che tenta di votare di nascosto, e che si reca al seggio nelle ore notturne, quando ormai è tardi perché la sua immagine possa finire nei seguiti tg delle 20, spingendo magari altri elettori a votare. Mi ha impressionato un presidente della Repubblica così impegnato nel non scontentare il presidente del consiglio».

Mattarella aveva però il problema di non distanziarsi troppo dalla presa di posizione di Giorgio Napolitano, presidente emerito, che ha avallato la scelta dell’astensione.
«Opinione opposta a quella di Napolitano - che non è una vera figura istituzionale ma che si comporta come se lo fosse, dichiarando da palazzo Giustiniani - l’aveva data il presidente della Corte, Grossi. Quello che è successo, però, è che altre figure di garanzia hanno deciso di smentire la limpida posizione di Grossi, che era coerente con il messaggio della Costituzione».

Peraltro la stessa riforma della costituzione di Renzi interviene sul quorum, abbassandolo, per depotenziare il trucco a cui è ricorso lo stesso presidente del consiglio - ultimo di una tradizione bipartisan - con il fronte del no che invece di competere sul quesito, nei seggi, punta a non far partecipare al voto gli elettori, sommando gli indifferenti ai contrari. Pensa che il quorum andrebbe abolito?
«Durante il dibattito della Costituente il timore era quello di un possibile abuso del referendum che avrebbe potuto portare a forme di plebiscitarismo dal basso. Oggi il rischio è invece opposto, con i referendum che diventano sempre strumenti nelle mani di chi sta al governo. L’abbassamento del quorum previsto dalla riforma Boschi è così un raro aspetto positivo della riforma, che però non solo viene smentito ma convive con un discutibile alzamento delle firme necessarie per richiedere una consultazione, che passano a 800mila, molte».

Nel ‘47, quando la commissione per la Costituzione discuteva proprio dello sbarramento da inserire per la validità di un referendum, Umberto Terracini disse: «Non si comprende perché un deputato eletto col voto del trenta per cento degli elettori debba essere riconosciuto come capace di esprimere la volontà di un determinato raggruppamento della popolazione, mentre poi quando il trenta per cento di quel gruppo popolare esprime direttamente la sua volontà, questa non dovrebbe avere valore».
«Terracini coglieva pienamente la contraddizione del quorum, i limiti che sono ben evidenti anche in questa ultima consultazione. Il parere di 16 milioni di persone non vale nulla, mentre forze politiche che hanno ben meno voti, grazie a un premio elettorale peraltro incostituzionale, esercitano un illimitato potere legislativo».

Però lei non è certo un fan della democrazia diretta.
«Il punto è che le forme della partecipazione e della deliberazione collettiva possono essere molteplici. Ma se fino agli anni 70 il tema era al centro della cultura politica della sinistra, che tentava di conciliare Rousseau con Marx, con filosofi come Galvano della Volpe, oggi questo tema riemerge solo altrove, in forme primitive e ingenue, come ci ricorda il nome della piattaforma online del Movimento 5 Stelle, che è appunto Rousseau. Mi pare che Renzi, invece, evochi in continuazione un rapporto diretto con il popolo ma che poi viva con fastidio se questo pretende una cessione di sovranità».

Il premier festeggiando ha detto che a perdere è stata «la vecchia politica». Vecchia politica che lei evoca, sovrapponendosi così perfettamente alla narrazione impostata da palazzo Chigi.
«Il nuovismo di Renzi è in realtà l’utilizzazione del potere ottenuto dopo congiure, stai sereno, regolamenti di conti tutti interni ai palazzi del potere. A me pare quella, la vecchia politica, aiutata anche in questo caso, purtroppo, da alcuni giuristi come Sabino Cassese che ha coniato per Renzi una teoria costituzionale francamente surreale che ha chiamato “legittimazione popolare postiticipata”. Solo che in democrazia la legittimazione è preventiva: è questa l’anomalia che spinge il premier a cercare continuamente occasioni di conferma, sondaggi sulla sua persona, prove di forza, plebisciti».

Ora il gioco degli analisti e dei commentatori è capire se chi ha votato sulle trivelle contro l’indicazione del segretario del Pd e presidente del consiglio, darà un dispiacere a Renzi anche sul referendum costituzionale, dicendo no alla riforma Boschi.
«È possibile che i quasi 16 milioni di elettori che sono andati a votare siano una massa critica capace di impedire il passaggio del disegno plebiscitario su cui saremo chiamati a esprimerci a ottobre. Se fosse così, la sconfitta di Renzi è probabile, perché 16 milioni sono ad esempio più dei no che bocciarono la riforma di Berlusconi, nel 2006, e sono circa il 47 per cento dei votanti delle elezioni politiche del 2013».

Però così si ignora lo specifico del quesito sulle trivelle, che avrà avuto un suo peso, soprattutto in alcune regioni interessate dalle piattaforme, come la Basilicata. Lo stesso dovrebbe essere per la Costituzione.
«Dovrebbe ma non lo sarà, per due ragioni. Perché Renzi e Boschi hanno sempre detto che la loro avventura a palazzo Chigi è legata all’esito del referendum d’autunno, e poi perché una consultazione su un mega quesito omnicomprensivo, con dentro 47 articoli della Costituzione e sui temi più disparati, si presta perfettamente all’intento plebiscitario della consultazione. Non è un caso che la Consulta e la giurisprudenza europea abbiano più volte indicato la necessità di consultazioni su quesiti ragionevoli e coerenti».

Renzi ha peraltro avvisato che ricorrerà a argomenti «demagogici». Cosa che potremmo notare non è in realtà nuova, per il premier e non solo. Direi che la demagogia è una caratteristica del frangente politico.
«Siamo in un sistema politico a demagogia incorporata, potremmo dire, che ha fatto del populismo un tratto di sistema, e non più una devianza».

È chiaro a questo punto che il «ciaone» di Carbone era rivolto anche a lei.
«Ma quel “ciaone” è proprio la conferma che siamo immersi in un populismo senza popolo, che accarezza il mito della disintermediazione, del rapporto diretto con le persone, ma poi teme e insulta il popolo reale».

Non è che magari il più lo faccia la comunicazione. Anche la vecchia politica, forse, avendo Twitter avrebbe abbondato in sfottò.
«Non credo sia una questione di mezzi espressivi, ma di ciò che ci metti dentro, di cosa immetti nel canale di comunicazione. Carbone e gli altri sodali ci mettono quello che hanno in testa, e che tutti possiamo giudicare. E lo fanno nel deliberato proposito di rompere con ogni carattere riflessivo della politica, contenti di restare sulla superficie. Carbone ha fatto la parodia di Alberto Sordi, dimenticando che Sordi rimase senza benzina, rincorso dai lavoratori a cui ha fatto la pernacchia. E l’esito delle continue provocazioni potrebbe esser proprio lo stesso: lasciare senza benzina la Smart con cui Carbone accompagnava Renzi all’inizio della sua avventura romana, quando tramava per raggiungere il potere».