Maria Elena Boschi ha incontrato a palazzo Chigi una delegazione di Radicali, che da mesi propongono che il referendum di ottobre sulla riforma costituzionale (che nel frattempo pare destinato a diventare il referendum di novembre) sia diviso in diversi quesiti, in domande più nel merito delle singole modifiche, per argomenti «omogenei». L’incontro va però considerato come di cortesia istituzionale, con il ministro delle Riforme che riceve un comitato referendario per sentirne la voce e registrarne i desideri, già depositati in Cassazione il 19 maggio.
Sentire, registrare e poi archiviare, però, perché nella stessa giornata, prima dai gruppi parlamentari del Pd e poi direttamente da Matteo Renzi, arrivano invece segnali di chiusura abbastanza netti. Dice no Luigi Zanda, dice no Ettore Rosato. Dice no sopratutto il presidente del Consiglio: «Per me», dice, «lo spacchettamento non sta in piedi». «Io non ho paura del voto dei cittadini», continua il premier parlando con il Corriere, «ma la maggior parte dei giuristi dice che non è possibile fare un referendum à la carte». Fosse per lui, insomma, farebbe una domanda «molto semplice» e dall’efficace effetto retorico: «volete continuare con questo parlamento o cambiare?».
Il posizionamento di Renzi è ovviamente pesante, ma la vicenda è in realtà ancora aperta. C’è tempo fino al 15 luglio, infatti, per depositare le firme e passare la palla alla Corte di Cassazione che decide e valuta i quesiti e aveva già preso in considerazione l’ipotesi di un referendum multiplo.
I giudici da settimane stanno valutando la possibilità, che non sembra così campata in aria come dicono i dem. Secondo Luigi Zanda «nessuno può sapere che riforma sarebbe uscita se il testo che le Camere hanno approvato intero fosse stato diviso - spacchettato - in più testi». È vero - e infatti si deve ricordare che in parlamento c’era chi, dai 5 stelle a Sinistra italiana fino a pezzi del Pd, proponeva già allora un voto per parti separate, così da poter entrare più nel merito della riforma.
Ma spacchettare il referendum resta comunque possibile, se qualcuno raccoglie le firme in questo senso. Due sono i modi: le firme dei parlamentari o quelle di 500mila cittadini, firme che andavano però raccolte nei tre mesi successivi alla pubblicazione della riforma in Gazzetta. Missione impossibile, tant’è che non solo il comitato del No sta faticando, ma anche il comitato del Sì, promosso dal Pd, è ancora in alto mare.
Servono dunque le firme dei parlamentari, che sono state già raccolte e depositate sia per il no (da Sinistra Italiana, Lega, Forza Italia e 5 stelle) che per il sì (dal Pd e vari centristi). Più in salita è invece la raccolta per parti separate: per ora le firme sono una trentina, ma raccolte nella giornata di lunedì, con la maggioranza dei parlamentari ancora lontana da Roma.
Servono 126 deputati o 64 senatori: un obiettivo complicato soprattutto perché il Movimento 5 stelle - inizialmente favorevole all’idea - si è ora disinteressato, un po’ come si dice disinteressato a eventuali modifiche all’Italicum, anche su punti che un tempo sarebbero stati ben accolti, come il superamento dei capolista bloccati o un ridimensionamento del premio di maggioranza.
Se però ai Radicali riuscisse il colpaccio, ogni scheda potrebbe avere effettivamente uno specifico quesito e sì, certo, si potrebbe, dopo la consultazione, ottenere una riforma approvata solo in parte, magari solo sulla modifica del meccanismo del voto di fiducia per il governo (che dovrebbe esser prerogativa della sola Camera) e però non - per dire - sulla nuova composizione del Senato che con il testo Boschi diventa non elettivo. «Ma quel che ci ha mosso» spiega all’Espresso il Radicale Riccardo Magi, «è proprio il rispetto del principio costituzionale della libertà di voto».
Un solo maxi quesito per i Radicali non permetterebbe una libera scelta, mettendo insieme temi tra loro troppo distanti, come la riforma del titolo V, delle competenze degli enti locali e - ad esempio - dell’istituto referendario, per cui si abbassa il quorum ma si alzano sensibilmente (fino a 800mila) le firme necessarie alla convocazione e senza per ora modificare i tempi di raccolta, senza rimuovere cioè l’ostacolo maggiore davanti al quale si trovano i vari comitati referendari.
«Ed è curioso che a dirsi contrario allo spacchettamento», continua Magi, «sia proprio chi in queste ore dice di non volere un plebiscito: l’unico modo per non evitare l’effetto di un referendum su Renzi è votare nel merito della riforma e non su un generico quesito sulla voglia di cambiamento».
Meglio dunque più quesiti omogenei, che verrebbero predisposti dall’ufficio centrale della Corte di Cassazione che dovrebbe a quel punto - ricevute entrambe le richieste, sia per un referendum a quesito unico sia per una consultazione per parti separate - solo interpellare la Corte Costituzionale per decidere se far prevalere il principio della voto libero e consapevole (a cui si rifà chi firma la richiesta di voto per punti) o l’articolo 138 della Costituzione che descrive il processo di riforma costituzionale come un processo unico.