La sentenza sull'Italicum lascia governo e partiti in preda del saliscendi di ipotesi e proposte che fermano le urne. Perché i vari schieramenti sono interessati solo a una norma che li avvantaggi al momento del voto

Montecitorio come la fortezza Bastiani di Dino Buzzati. Attesa e frustrazione. «Tanto vale andare tutti a casa e aspettare le decisioni della Corte», ripete da giorni Enzo Lattuca, deputato romagnolo del Pd che di questa legislatura è stato il parlamentare più giovane e che ora condivide la condizione esistenziale di tutti gli altri colleghi, leader e peones: la sospensione del giudizio. Fino al 4 dicembre 2016 la politica italiana è vissuta nell’aspettativa del giudizio universale sulla riforma della Costituzione e sul destino del governo Renzi, intrappolata nel sì o nel no.

Da quella notte, da quando il successo schiacciante dei No ha spinto Matteo Renzi a lasciare Palazzo Chigi, il dilemma ha cambiato oggetto: e per settimane nel Palazzo hanno preso a discutere su un’altra data fin du monde, il 25 gennaio 2017, la sentenza della Consulta per valutare la costituzionalità dell’Italicum. Ed è solo l’anticipo di quello che accadrà un istante dopo la pubblicazione della decisione, in caso di bocciatura della legge elettorale firmata da Renzi e da Maria Elena Boschi: un nuovo tormentone, questa volta sulla legge elettorale che verrà e sul suo corollario: la data di scadenza del governo di Paolo Gentiloni e della legislatura.

Sono gli ultimi fotogrammi di una legislatura che nella fase finale si rivela come una lunga parentesi tra due date: tre anni esatti, dal 4 dicembre 2013 al 4 dicembre 2016, dalla sentenza che impedì agli italiani di tornare a votare al voto degli italiani che ha reso carta straccia la riforma Renzi-Boschi. Si riparte dal via, dal pomeriggio del 4 dicembre 2013, il giorno in cui la Consulta decise di cancellare la legge elettorale allora in vigore, il famigerato Porcellum, troncando alla radice qualsiasi ipotesi di ritorno immediato alle urne. Si votava infatti, pochi giorni dopo, alle primarie per la segreteria del Pd. E il candidato più forte, il grande favorito Matteo Renzi, non aveva fatto mistero di voler rapidamente chiudere con l’esperienza del governo di Enrico Letta e tornare alle elezioni, presto, subito.
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La sentenza della Corte gli sbarrò la strada: senza legge elettorale non c’erano più neppure le elezioni. A caldo Renzi non la prese bene e reagì stizzito: «Dal punto di vista giuridico e tecnico trovo la sentenza sorprendente. La Corte dice che il Parlamento può approvare una nuova legge elettorale? Beh, grazie di cuore per la gentile concessione. Meno male che ce l’hanno detto i giudici. O hanno il senso dell’umorismo, o non so cosa pensare».

La sua ira arrivò a sfiorare il Quirinale, l’inquilino era il riconfermato Giorgio Napolitano, considerato dal sindaco di Firenze il mandante politico dello scherzetto. Poi, invece, decise di cambiare programma. Di rovesciare Letta e di andare a Palazzo Chigi senza passare dal «portone principale», il voto degli italiani, come aveva ripetuto e scritto in ogni occasione. E di provare a fare lui, il premier-rottamatore, quelle riforme che erano sempre mancate, nella legislatura che sembrava essere già nata morta. Restava da convincere il presidente della Repubblica, grande protettore fino a quel momento di Enrico Letta.

Quaranta giorni per scrivere un nuovo patto: Renzi si impegnava a garantire la durata della legislatura fino alla scadenza naturale del 2018 (all’alba del 2014 sembrava un traguardo lontanissimo), in cambio chiedeva di essere lui, e non Letta, l’uomo che da Palazzo Chigi avrebbe guidato il percorso delle riforme. Accordo raggiunto: all’inizio di febbraio 2014 l’uomo del Colle disse sì (e con lui Angelino Alfano, la minoranza del Pd al gran completo, con l’eccezione di Pippo Civati, e anche Massimo D’Alema...). Renzi indossò il completo blu e giurò al Quirinale da presidente del Consiglio, il più giovane dell’intera storia, non solo repubblicana ma unitaria.

Editoriale
Prontuario post-democratico per il Paese dove è vietato votare
23/1/2017
Tre anni dopo Renzi appare prigioniero di quell’azzardo non riuscito, perché l’elettorato alla curva decisiva del referendum gli ha voltato le spalle. Ancora una volta l’ex premier è costretto a piegare tattica e strategia politica alle decisioni della Corte e degli altri palazzi. In un labirinto di norme transitorie, riforme delle riforme, in cui si è smarrita quella che Sergio Mattarella ha definito nel suo messaggio televisivo di fine anno «la via maestra», cioè il ricorso agli elettori quando si deve trovare la exit strategy per uscire da una situazione di impasse.

Tutta la legislatura ha ballato su questa doppia assurdità: la coesistenza nel sistema politico di più leggi elettorali, incompatibili tra loro. Accompagnata, per di più, dall’impossibilità di usarle in caso di necessità. Il Consultellum, la legge elettorale uscita dalla sentenza della Corte del dicembre 2013, può reggere su un piano giuridico, ma è un mostro sul piano politico e condannerebbe il Paese all’ingovernabilità assoluta. L’Italicum, la legge elettorale espressione della maggioranza e del governo Renzi che alla Camera arrivò a chiedere il voto di fiducia sull’approvazione, è stata fin dall’inizio condizionata da due bizzarrie.

La sua data di entrata in vigore, posticipata al primo luglio 2016: per quindici mesi l’Italia ha avuto una legge elettorale che secondo i sostenitori sarebbe stata invidiata da tutta Europa ma che non poteva essere utilizzata. E poi, l’Italicum è una legge che vale solo per la Camera, si è dato per scontato che il Senato sarebbe stato cancellato dal voto popolare nel referendum. Il Senato è stato considerato defunto, pronto a un funerale di prima classe. E invece, come Lazzaro, è tornato in vita. Peccato, però, che ora non abbia una legge elettorale, a parte il fragilissimo Consultellum.

Tutto questo non era imprevedibile, ma non è stato previsto. E come in un’opera di Escher, scale che salgono, scendono, si incrociano, non portano da nessuna parte, le leggi elettorali, anziché rappresentare uno sbocco alla crisi, un momento di liberazione in cui restituire la parola al popolo, sono diventate un reticolo che tiene la politica in ostaggio. Il presidente della Repubblica è stato di fatto privato per un’intera legislatura del suo potere più importante: lo scioglimento anticipato del Parlamento. E al corpo elettorale è stato impedito di esprimersi, o almeno di avere la possibilità di farlo. Fino al voto del 4 dicembre.

Politica in stallo
L'Italicum e la Consulta, quella piccola corte sempre più potente
24/1/2017
Il colpo di grazia per l’Italicum, legge elettorale destinata a finire nei libri di storia per essere stata cancellata senza neppure una prova elettorale, è arrivato con le vittorie di Virginia Raggi e di Chiara Appendino, le sindache 5 Stelle a Roma e Torino, con un sistema a doppio turno troppo simile a quello della riforma progettata da Renzi. Il coro di chi invocava il cambiamento di una legge che rischia di consegnare il governo nazionale a M5S è diventato assordante, speculare al silenzio dei Di Maio e dei Di Battista che dopo aver contrastato l’Italicum con ogni mezzo hanno fatto capire che le regole non si toccavano e che a loro la nuova legge elettorale tutto sommato non dispiaceva purché con qualche correzione, si capisce. Per dire che sulle regole del gioco ognuno si fa guidare soprattutto dalla convenienza del momento. E a furia di inseguire le convenienze particolari il sistema è collassato.

Ora l’Italicum è sub judice e uscirà dall’esame della Corte costituzionale profondamente stravolto. Il toto-sentenza negli altri palazzi prevede: bocciatura minima dell’Italicum (solo la parte che riguarda la possibilità per gli aspiranti deputati di candidarsi in più collegi), bocciatura parziale (via il ballottaggio necessario se nessuna lista raggiunge il 40 per cento), bocciatura totale (la Corte potrebbe dire: l’Italicum era legato alla riforma della Costituzione bocciata dagli elettori, da solo non sta in piedi).

Al di là delle soluzioni tecniche, resta il paletto fissato dal presidente Mattarella, una legge elettorale conforme per la Camera e per il Senato, magari a prova di ricorsi, per evitare che in futuro ancora una volta sia la Corte costituzionale a dover sciogliere un groviglio tutto politico. Non è questione che si può risolvere in pochi giorni o in poche settimane. Anche perché tra i gruppi parlamentari girano già le simulazioni. Il Pd, per esempio, con l’Italicum senza premio e senza ballottaggio potrebbe conquistare circa duecento deputati, contro i trecento attuali. Mentre il Movimento 5 Stelle raddoppierebbe, da 91 arriverebbe a circa duecento seggi. E in caso di ritorno alla legge proporzionale neppure un ingresso di Forza Italia nella maggioranza formata dal Pd e dai centristi di Angelino Alfano potrebbe bastare per garantire i numeri essenziali per fare un governo stabile.

Perché sul versante opposto, senza neppure stringere un’alleanza formale, la contrarietà dei 5 Stelle e della Lega di Matteo Salvini a votare la fiducia a un governo fondato su Renzi e Berlusconi bloccherebbe sul nascere qualunque tentativo: le larghe intese si stanno facendo sempre più ristrette. Sondaggi, simulazioni, proiezioni che sono già l’anticipo del day after la sentenza della Corte. Nei palazzi della politica, al Quirinale, nella sede del Pd dove è tornato Renzi la bocciatura dell’Italicum è già stata masticata e assimilata. E a Palazzo Chigi, dove Paolo Gentiloni assiste sornione alla paralisi della politica altrui. E sa che nella legislatura incompiuta essere tra coloro che sono sospesi non è sinonimo di precarietà, ma di durata.