Siamo l’unico Stato occidentale senza una legge che consenta le urne. E la Consulta ha il dovere di indicarci una via d’uscita: ma è normale?
l’Espresso, dopo il flop elettorale di Matteo Renzi al referendum e la straripante vittoria dei No (non dico del No, perché le sfaccettature erano molte), titolò facendo il verso alla storica frase attribuita a Ernesto Che Guevara: “Hasta elezioni siempre!” Significa, letteralmente: “Sempre fino alle elezioni!”. In quel frangente, qualche cerchiobottista e qualche spaventato esponente del Pd ridotto com’è ridotto, ci criticò dicendo che non avevamo a cuore la democrazia rappresentativa, quella dei Padri, per intenderci, perché adesso c’era da fare un governo tecnico-politico, c’era da pensare un nome, c’era da riflettere sul senso di responsabilità e sulle scadenze, sul G7 di Taormina e via elencando. Insomma, c’era da prendere tempo.
Tutto giusto e tutto vero. Salvo per un dettaglio che, soprattutto dopo avere pontificato per mesi sulla Costituzione e il suo valore simbolico prima ancora che materiale, dopo avere tirato in ballo i partigiani e la memoria delle dittature, pesa come un macigno sull’Italia furbetta che cerca una strada per recuperare elettorato e credibilità politica. E non è nemmeno questione di vitalizio, come vanno molti ripetendo per strappare un applauso qua e là. Certo c’è del vero nell’onorevole ingordigia di prebende, basta guardare lo storico delle legislature. Ma, in questo caso, per un liberale, c’è in gioco qualcosa di più profondo, su cui vale la pena fare una riflessione.
Detta in poche parole: è vero che in Italia, paese democratico (dove cioè governa il popolo attraverso una delega) la Costituzione non prevede che si vada al voto dopo un No al referendum, essendoci una maggioranza parlamentare che sostiene un governo. Ma è altrettanto vero che mai i padri costituenti si sarebbero immaginati un Paese dove, all’improvviso, è vietato votare. Non vi è cioè una legge elettorale in vigore.
Ora mi domando se questo sia normale. Pur senza arrivare al modello americano, alle prese con il passaggio Obama-Trump, che ha fissato in Costituzione tanto la legge elettorale quanto la data delle elezioni (si sa già oggi con certezza in che giorno si voterà fra quattro, otto, dodici, sedici anni), il caos italiano ci porta a essere privati a tempo, ma nella sostanza, di un diritto delle democrazie. Eppure il diritto - per essere tale - deve essere “di tutti” e “sempre”. Altrimenti si classifica come privilegio. Deve cioè vivere sia quando serve esercitarlo, sia quando non è necessario. Qualcuno dirà: di leggi non ne abbiamo una, ma tre. Inutili, però. C’è l’Italicum giudicato dalla Consulta che - in ogni caso - si sarebbe potuto applicare a una sola Camera, vista la sicumera di chi lo presentò e approvò, all’epoca convinti che l’abolizione del Senato (poi bocciata dagli italiani) fosse scritta nelle stelle. Ne abbiamo un’altra, abrogata da quest’ultima, l’ex Porcellum poi Consultellum, che non potrebbe essere usata in caso di emergenza come estintore democratico. Ne abbiamo poi una terza, sepolta nella Seconda repubblica, il Mattarellum, che per curiosa coincidenza porta oggi il nome del Capo dello Stato garante della Carta. Ma nemmeno essa esiste nella realtà. Per questo, la settimana che si apre è fondamentale. Dobbiamo mettere fine a questa anomalia, ben più grave del rapporto deficit-Pil sforato, ben più perniciosa per il nucleo caldo della convivenza democratica di quanto possa essere la modifica (più o meno riuscita) del Senato della Repubblica.
Sappiamo che Non basterà la sentenza. Non basterà in se stessa e non basterà al parlamento avido di mettere le mani sulla materia elettorale, in quanto meccanismo diabolico capace di perpetuare o meno le poltrone di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ma l’importante è che l’Italia comprenda che le regole del voto sono una priorità democratica. E si smetta di ripetere che abbiamo altre urgenze. È ovvio che lottare contro la disoccupazione e la criminalità, rispondere all’emergenza immigrazione, prevenire i disastri naturali con politiche urbanistiche è il compito concreto di uno Stato moderno. Ma solo dentro una democrazia compiuta, sana e matura, libera da legacci, questo Stato può trovare la forza (e la credibilità) di presentarsi al popolo per fare delle proposte. Uno Stato che al contrario considera il diritto di voto una questione secondaria non può farlo. Per sua stessa natura insalubre. Perché riduce la delega popolare a pura formalità.
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