
Un passaggio in apparenza da addetti alle cose di Palazzo, accolto dagli altri inquilini con indifferenza o addirittura con sarcasmo. «Se la risposta all’esito del referendum è quella di spostare Alfano agli Esteri per far posto a Minniti, abbiamo già perso cinque punti percentuali...», ha commentato Massimo D’Alema, che pure del nuovo ministro dell’Interno fu il capo. Eppure è questo cambio di casella non dovuto a bilancini di corrente, la nomina di Marco Minniti al Viminale, a rivelare lo strettissimo spazio di manovra per un governo che si annuncia tra i più fragili della storia repubblicana, destinato almeno sulla carta a vita breve.
La sola possibilità di lasciare un segno, anche sul piano legislativo, che prenderà la forma di un pacchetto di provvedimenti legislativi da presentare entro la fine di gennaio: sarà battaglia, nelle aule parlamentari e fuori. Qualcosa di più: la necessità di una svolta culturale e politica sulla sicurezza e sull’immigrazione, della sinistra, del Pd. Perché qui, sulle ondate migratorie e sulla paura del terrorismo che si abbattono su fasce di popolazione già stremate dalla crisi economica, in Francia è affondata la sinistra, in Germania rischia di naufragare Angela Merkel. E la corsa di Renzi si è bloccata in Italia, ben più di quanto il premier rottamatore avesse intuito.

L’immigrazione fuori controllo: nel 2016 il numero dei migranti sbarcati in Italia ha toccato quota 181.283, un record rispetto al 2015 e al 2014, con oltre 24mila minori stranieri non accompagnati, il doppio di un anno fa. L’emergenza periferie, nelle grandi città e nei piccoli centri: alla fine del 2016 la rivolta nel quartiere romano San Basilio contro una famiglia del Marocco che aveva una casa popolare regolarmente assegnata e le barricate di Gorino sul Delta del Po contro un pullman di dodici profughe, con lo Stato costretto a fare marcia indietro di fronte alle proteste. Mentre il 2017 si è aperto con il furore dei migranti contro gli operatori nel centro accoglienza di Cona nel veneziano, dopo la morte per malore di una ragazza ivoriana, Sandrine Bakayoko.
«Eventi che presi da soli non vanno enfatizzati, ma che testimoniano una situazione di equilibrio molto teso. I pezzi di una sfida democratica senza precedenti», ripete Minniti. Da meno di un mese siede avvolto nel caldo soffocante lasciato in eredità dal freddoloso predecessore Angelino Alfano, nella stanza che fu di Francesco Cossiga, suo amico personale, e di Giorgio Napolitano, l’unico titolare del Viminale ad aver avuto in tasca la tessera del Partito comunista, prima di lui. Due esponenti di partito destinati a trasformarsi in uomini di Stato.
Il percorso di Minniti: dalla federazione dei giovani comunisti in Calabria alla segreteria di D’Alema a Botteghe Oscure fino agli incarichi di governo, sempre nello stesso settore. Arriva al ministero dell’Interno a sessant’anni dopo essere stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con D’Alema e alla Difesa con Giuliano Amato nel 1998-2001, vice-ministro dell’Interno nel secondo governo Prodi nel 2006-2008, dal 2013 sottosegretario con delega ai servizi segreti, tra i pochi a essere riconfermati nel cambio tra Enrico Letta e Renzi.
Un’esperienza che gli ha permesso di entrare nel nuovo ruolo senza strappi. Nella prima riunione del comitato di analisi strategica anti-terrorismo, il C.a.s.a., in fondo l’unica differenza con il passato è che si è spostato alla presidenza dell’organismo: lui conosce tutti, tutti conoscono lui. E al comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica si è presentato come un duro che conosce alla perfezione gli apparati dello Stato: «Non prendo decisioni per caso, senza averci pensato, non sono inconsapevole. Posso sbagliare, fare uno scivolone, ma per favore, dite che è stato un errore di valutazione, non una gaffe». Per il ministro non è stata una gaffe neppure la decisione di rendere pubblici i nomi dei due agenti che hanno ucciso l’attentatore di Berlino a Sesto San Giovanni, sbeffeggiata sui social network.
«I nomi sarebbero usciti in ogni caso e tenendoli segreti avremmo dato l’impressione di voler nascondere qualcosa, avremmo gettato un’ombra su un’operazione limpida che dimostra l’efficienza del sistema. Il nostro fiore all’occhiello è la pattuglia di strada, la forza della normalità. Non è stata un’azione casuale: c’è una rete di sicurezza in cui ogni pezzetto è presidiato. La mia generazione ricorda bene la copertina di “Der Spiegel” alla fine degli anni Settanta con la P38 sugli spaghetti, oggi la Süddeutsche Zeitung ha titolato in italiano: “Grazie mille, signori”. E poi c’era un problema di messaggio: l’agenzia dell’Isis Amaq ha presentato la sparatoria di Milano come un’azione eroica del terrorista. Non possiamo dare l’impressione di avere paura. Il sistema ha retto, ma da ogni fatto dobbiamo trarre la giusta lezione».
In trincea contro il fantasma del terrore. Perché nel tragico capodanno di Istanbul un gruppo di connazionali è sfuggito per un soffio al massacro. E la rete dei complici di Amri non c’è, ma l’auto-innesco del lupo solitario cambia la percezione del pericolo. Minniti ha alle spalle tre anni e mezzo passati nell’ufficio-bunker accanto a Palazzo Chigi, circondato dagli inseparabili modellini di aeroplano, a studiare report, dossier, le relazioni dell’intelligence dislocata nei punti caldi, a prevenire, calcolare, anticipare le mosse dell’avversario, con la certezza terribile che non tutto può essere messo in sicurezza. Mai un’intervista: «Sono la prova vivente che in politica si può sparire e contare lo stesso», ha sempre schivato offerte di giornali e tv. Ma ora è diverso. Perché la battaglia è politica, culturale, di comunicazione».
Il ministro non dimentica di aver vissuto almeno due momenti della storia recente in cui la sinistra di governo si è scontrata con il tema della sicurezza. Minniti era a Palazzo Chigi con D’Alema quando Milano fu sconvolta da un’ondata di violenza, nove morti nei primi dieci giorni dell’anno 1999, all’Interno c’era Rosa Russo Iervolino, la Lega di Umberto Bossi organizzò le ronde in piazza. Minniti era al Viminale, vice del ministro Amato, quando il governo Prodi approvò in poche ore il decreto-sicurezza dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani massacrata da un rumeno a Roma nel 2007. Ma oggi la questione si pone in termini completamente nuovi. Non è più, soltanto, materia da addetti all’ordine pubblico, né soltanto interna.
«Senza Schengen l’Europa non esiste, ma la libertà di circolazione può essere garantita solo se le frontiere esterne sono sicure. Nel 2017 si voterà in Germania, Francia, Olanda, di fronte al proprio elettorato nessuno farà sconti a nessuno, meno che mai all’Italia. Se riusciamo a fare qualcosa in Italia aiutiamo gli altri partiti democratici in Europa, se falliamo noi non ci faranno sconti», è il quadro in cui Minniti inserisce la sfida del governo Gentiloni. «Da tempo ho un’idea: sfatare il tabù che le politiche di sicurezza siano “par excellence” di destra. È vero che spesso un impulso securitario nella società e nell’opinione pubblica produce uno spostamento a destra dell’elettorato, ma sono da sempre convinto che la sicurezza sia pane per i denti della sinistra. Le moderne politiche di sicurezza sono integrate: non solo repressione, come pensano le destre, non solo interventi di recupero sociale, come riteneva una parte della sinistra. E soltanto una cultura politica di sinistra riformista che non semplifica le risposte può mettere in campo il tentativo di una soluzione integrata alla domanda di sicurezza».
Sono le due gambe, i due polmoni del piano che il ministro dell’Interno sta preparando e che presenterà alla fine di gennaio. Due parole-chiave: severità e accoglienza. «Se non c’è severità sul rimpatrio non si fa neppure accoglienza», non smette di dire in ogni sede Minniti, una linea che ha ricevuto nel messaggio di fine anno l’appoggio più autorevole. «Dopo l’esplosione del terrorismo internazionale di matrice islamista, la presenza di numerosi migranti sul nostro territorio ha accresciuto un senso di insicurezza», ha detto il 31 dicembre in tv Sergio Mattarella. «È uno stato d’animo che non va alimentato, diffondendo allarmi ingiustificati. Ma non va neppure sottovalutato. Non rendersi conto dei disagi causati alla popolazione significa non fare un buon servizio alla causa dell’accoglienza». Tra i due la sintonia è assoluta, cementata anni fa, quando Mattarella era ministro della Difesa e Minniti sottosegretario.
Il piano Minniti si muoverà in due direzioni: il primo pacchetto di provvedimenti sull’immigrazione, il secondo sulla sicurezza urbana. Sulla gestione dei migranti c’è la riapertura dei Cie, i Centri di identificazione e espulsione, previsti dalla legge ma caduti in disuso, anticipata da una circolare del capo della Polizia Franco Gabrielli: attualmente sono quattro, diventeranno uno per regione, milleseicento posti contro i 360 attuali.
Versano in stato di abbandono, nei progetti del Viminale andranno ristrutturati e affidati a una governance trasparente. La politica dei rimpatri: oggi, è il ragionamento di Minniti con gli esperti, il foglio di via appare un’ipocrisia. E non c’è bisogno di essere specialisti, anche a un osservatore superficiale l’odissea in Europa di Amri, l’attentatore di Berlino, appare per quello che è: l’anatomia di un fallimento. Sbarcato a Lampedusa nel 2011, in carica c’era il governo Berlusconi-Maroni, radicalizzato nel carcere dell’Ucciardone dove ha passato quattro anni, era destinato al rimpatrio in Tunisia ma scadono i termini di permanenza senza che arrivino i documenti dal governo tunisino e a quel punto resta libero di girare per l’Europa. Infine, dopo la strage del 19 dicembre, scappa indisturbato per Germania e Francia prima di tornare al punto di partenza, in Italia. Il riassunto di cinque anni di politiche suicide.
Nel piano Minniti c’è l’annullamento del secondo grado di giudizio in caso di negazione del diritto d’asilo per accelerare le procedure di espulsione di quei migranti che non godono di protezione internazionale. Ma anche la possibilità per i comuni di impiegare i migranti in attesa in lavori socialmente utili. E la costruzione di una rete di consenso e di collaborazione con i sindaci, poiché oggi solo un comune su quattro partecipa all’accoglienza dei profughi. Sono stati già stanziati cento milioni di euro per i comuni coinvolti, c’è l’accordo tra il Viminale e l’Anci per l’accoglienza che non superi la quota di 2,5 migranti ogni mille abitanti. E una rete di collaborazione con l’Islam, esterna e interna. La rete nel Mediterraneo con i viaggi di Minniti a Tunisi e Malta, la convocazione nei prossimi giorni della consulta dell’Islam, con l’obiettivo di estendere in tutta Italia i protocolli di collaborazione già firmati a Firenze e a Torino: nell’accordo si stabilisce che gli imam dovranno predicare in italiano, in seguito a un patto con le comunità e non a un’imposizione.
Il secondo pacchetto di interventi riguarda le città. E le periferie che nel 2016 hanno manifestato il disagio, la lontananza, il senso di abbandono in mille modi, a partire dal più dirompente: il voto. Nelle intenzioni di Minniti c’è in primo luogo un viaggio nei quartieri a rischio, senza troppe telecamere e pubblicità, e un piano di interventi mirato sulle esigenze della popolazione.
Ascolto e pragmatismo: «Le parole sono drammaticamente logorate. Quando il tam tam è così forte non puoi rispondere con un altro tam tam. Occorre un cambio di comunicazione: l’unica strada è rispondere con i fatti, con una soluzione concreta. Per questo insisto che la sicurezza si basa su due cardini: intelligence e territorio. Pattuglie, ma anche illuminazione pubblica, lotta al degrado, sviluppo urbanistico. Il Bronx sempre evocato nell’immaginario collettivo come un paragone negativo oggi è quasi un quartiere modello». E coinvolgimento delle amministrazioni locali: una tessitura tutta politica, anche con sponde lontane. A Roma è stato il ministro a insistere che la conferenza stampa sull’ordine pubblico fosse lasciata alla sindaca di M5S Virginia Raggi (con il prefetto Paola Basilone). A Milano c’era il leghista di governo Roberto Maroni, suo antico estimatore: «ha usato con me toni mai uditi nel Pd», ha scherzato alla fine Minniti con i collaboratori.
Lo stesso discorso vale per Gomorra, la criminalità organizzata, le mafie. Il calabrese Minniti vede la possibile sconfitta militare delle cosche, ma ritiene che ci sia ancora da lavorare per restituire centralità culturale alla lotta alla mafia che si è persa negli ultimi anni, restituendo al pubblico i beni confiscati, e per sbarrare la strada alle infiltrazioni nella pubblica amministrazione e negli appalti: la ricostruzione per il terremoto in Centro Italia sarà il più imponente investimento pubblico dei prossimi anni, va evitato che sia inquinata da corruzione e mafia.
Il piano Minniti sarà pronto tra qualche settimana, poi il pacchetto immigrazione e quello sulla sicurezza urbana diventeranno proposte legislative da discutere in Parlamento. E comincerà la battaglia politica: sul ritorno dei Cie si è già aperto il fuoco incrociato, da destra e da sinistra. Contrari i presidenti di regione del Pd, da Debora Serracchiani a Enrico Rossi, le associazioni cattoliche e laiche. Sarà un momento decisivo per la vita del governo Gentiloni. Perché il premier sa che sulla sfida della sicurezza si vinceranno o perderanno le prossime elezioni, lo sa Renzi, dopo aver a lungo sottovalutato la questione. E ne è cosciente, soprattutto, Marco Minniti.
Nominato senza una corrente alle spalle, drappelli di parlamentari fedeli, alla guida di un ministero che un tempo gestiva il potere e che oggi appare il punto più avanzato della frontiera, dove si combatte e si rischia di cadere. Con la drammatica consapevolezza che il tempo si è consumato: nella prima settimana del 2017 sono ripresi gli sbarchi, le proteste, le rivolte, i morti nei centri di accoglienza. E Minniti al Viminale assomiglia all’ultima spiaggia. Anche se il ministro non ha nessuna voglia di arrendersi: «Qui si svolge la partita più importante: il destino della democrazia. E io sono un democratico, me la voglio giocare fino in fondo».