Ingrandimento

Rivoluzione e Riforma: due parole oggi scomparse che potrebbero tornare

di Massimo Cacciari   16 ottobre 2017

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Lutero e Lenin - Illustrazione di Duluoz

Un secolo da quando i bolscevichi prendevano il Palazzo degli Zar. E 500 anni da Lutero. Due forme per creare un ordine nuovo, per far svoltare la Storia. Che oggi, nel grande caos globale, sembrano in esilio. Ma nessuno può affermare che la loro assenza ne significhi la morte definitiva

Lutero e Lenin - Illustrazione di Duluoz
Che cosa unisce e che cosa separa questi due termini fatali del destino dell’Occidente, Riforma e Rivoluzione, il cui significato letterale sembrerebbe, peraltro, quasi coincidere? Ri-volgendo il divenire, passando quasi a contropelo la storia, dovremmo poter riattingere a una forma, a un Ordine, forse dimenticati, forse traditi, forse mal compresi o custodenti in sé valori ancora inascoltati, capaci di rinnovare la nostra vita, di ri-fondarla su principi finalmente stabili e giusti.

È sempre dal fondo dell’angoscia che suscitano le epoche di irreversibile crisi, che questa voce si leva. Grande Riforma e Rivoluzione parlano perciò sempre un linguaggio profetico, in cui la critica più radicale per lo stato e le potenze del presente si collega a un’estrema tensione per la fondazione di un ordine nuovo. La differenza cade sul modo in cui tale ordine è inteso e può essere raggiunto. In quella Riforma, di cui ricorre l’anniversario, è il timbro religioso-teologico a dominare (paradossale, si noti tra parentesi, che oggi il termine si usi per indicare proprio quei movimenti politici, i vari “riformismi”, che meno con quel timbro hanno a che fare - paradossale e rivelatore della perdita di ogni spirito profetico e utopico nel linguaggio politico dell’Occidente).

Non che si tratti semplicemente di “ri-convertirsi” a una forma originaria di fede e di vita. Ciò che si vuole non è ripristinare il passato, ma tornare a possedere l’energia propria dell’origine, la vitalità che è propria della fonte, dell’inizio, e che la tradizione non avrebbe saputo custodire. Nel suo essere storicamente tradotto-tradito il Verbo, la potenza della Parola-Azione originaria, si è andato spegnendo; le autorità, la cui missione doveva essere quella di mantenerlo vitale, hanno invece finito col comprometterlo alle potenze del secolo, con l’adattarlo ai suoi idoli. Il Verbo è stato tradotto nella “sapienza” di questi ultimi. Tale tradizione va radicalmente spezzata. La sua “continuità” deve essere decisa senza incertezze o timidezze. I tiepidi saranno sputati via dal Signore.

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La prassi della moderna Rivoluzione esige altrettanta decisione e altrettanta potenza agonistica contro il secolo, ma qui non sussiste una origine da ricordare e salvare. La novitas che si vuole instaurare è autonoma rispetto a valori passati,e cioè l’Ordine e le leggi da stabilire appaiono esclusivamente il prodotto della intelligenza e della volontà del rivoluzionario. E cioè della sua libertà. Il rivoluzionario si infutura soltanto; ogni nostalgia ne zavorrerebbe il movimento fino a impedirlo. Egli può bensi ritenere che lo stato che la sua prassi creerà significhi anche la postuma vittoria di coloro che la storia ha oppresso, ferito, messo a tacere, ma è lui, sono le sue idee, è la forza della sua organizzazione ciò che salva. Lui solo è l’artefice della “salvezza” dello stesso passato. Ri-formarne i principi significherebbe ripeterne le sconfitte. Spezzando la continuità del divenire storico, egli certamente intende esprimerne anche la verità, ma questa verità è lui solo che la realizza. Non esiste alcun modello o paradigma o Verbo che l’abbia già rivelata.
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In questo senso l’etica del riformatore si oppone a quella del rivoluzionario. Io posso, dice il rivoluzionario; Io dispongo in me della potenza di interpretare-e-trasformare lo stato di cose esistente, de-cidendo della storia che ad esso ha portato. Io devo, dice il riformatore. Dovere non significa potere. Conosco soltanto ciò che devo fare; so di dovere, non di potere. Ciò che devo mi è imposto chiaramente dal Verbo alla cui sorgiva potenza la mia vita si converte. È soltanto quel Verbo che può, alla potenza di Lui resta appesa la mia volontà. Mi salverà il dovere? Mi salverà la più scrupolosa osservanza di ciò che devo? Assolutamente impensabile affermarlo. Qualsiasi mia opera rimarrà abissalmente lontana da ogni potere salvifico. Debbo restare saldo come roccia esclusivamente sul dovere e adempierlo. L’energia straordinaria che si sprigiona da una tale etica è al centro dei grandi studi sulla Riforma protestante, da Max Weber in poi.

Dunque, una prospettiva teologico-politica abissalmente distante tra i due ideal-tipi del riformatore e del rivoluzionario? Una radicale differenza, sì, ma, come ogni autentica differenza, indicante anche la loro inseparabilità. Il riformatore rigetta ogni mediazione tra la propria coscienza e il divino. Nessuna auctoritas, nessun legame visibile, deve frapporsi tra il Sé impegnato nell’adempimento del dovere e quella Voce che a tale dovere lo chiama. Nessuno può giudicare la persona impegnata in tale dramma, se non lo stesso Signore. Con altrettanta energia il rivoluzionario abbatte ogni mediazione pretenda di imporsi tra l’idea che lo muove e la sua “incarnazione”. È lui ad assolversi, è lui a condannarsi se fallisce. Come quella del riformatore, egli concepisce la propria vita come una ascesi, un diuturno esercizio di mente e corpo per realizzare il proprio Fine. L’idea del rivoluzionario si configura nell’immanenza dello stesso divenire, ed egli può anche credere che il suo adempiersi sia scientificamente ipotizzabile. Il riformatore affida, invece, alla Volontà trascendente del Signore il destino dell’opera che egli deve svolgere.

Tuttavia il “colloquio” tra le due figure è davvero potente: entrambe, nei loro momenti più drammatici, figure di solitudine, direi abbandonate come il Crocefisso, l’una rivolta a un futuro, sulla cui “risposta” non potrà mai essere certa, l’altra alla potenza assoluta di un Signore di fronte alla quale il nostro arbitrio è sempre “servo”.
E ora? Dove ancora una traccia delle due grandi etiche che, combinandosi e contrapponendosi nei più diversi modi, hanno segnato l’inquieto cuore dell’Occidente dalla fine della Cristianità medievale fino all’apocalisse della prima metà del Novecento? L’etica dell’ Io posso tramonta nell’agitarsi delle moltitudini in cerca di pastore. Moltitudini impotenti invocano potenti fuori e al di sopra di sé, capaci di dar loro sicurezza e benessere. E tuttavia, non potendo essere cancellato lo spirito di Riforma e Rivoluzione, queste stesse moltitudini si rivelano intolleranti di ogni Capo, non appena se ne delinei la possibilità. L’etica dell’ Io devo , d’altra parte, tramonta nell’invocazione di diritti, tutti ritenuti naturali, tutti considerati dovuti alla pretesa natura umana. Una pulsione alla libertà come arbitrio che occorre esser ciechi per non vedere come ovunque dilaghi.

Riforma e Rivoluzione, alimento della potenza d’Europa nel Moderno, sembrano rifluire in questi domestici alvei, “liquidarsi” anch’esse come la cultura e i popoli che ne costituivano l’habitat. Nessuno però può affermare che la loro assenza ne significhi la morte definitiva o se, invece, proprio nel Disordine globale che attraversiamo, esse, in esilio da qualche parte, non meditino improvvisi e catastrofici ritorni.