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Politica
settembre, 2017

Marco Minniti, fenomenologia di un potente

Non ha truppe in Parlamento. Non twitta. Non va ai talk-show. Sembra un “nuovo” ma la sua storia politica viene dai tempi del Pci. Ora la svolta sui migranti ha fatto crescere la sua popolarità nei sondaggi. Ecco chi è l'uomo che divide la sinistra

Chi è Minniti? In tanti se lo sono chiesti, nell’estate che va a finire. Anche la suocera di Massimo D’Alema, stando al racconto sarcastico che ne ha fatto in giro il genero: «Qualche giorno fa la madre di mia moglie, donna che ben conosce la politica, mi ha chiamato e mi ha chiesto: “Massimo, ma chi è questo Minniti? Perché tutti parlano di lui? Era uno che lavorava con te ma non ricordo esattamente cosa facesse...”».

Chi è Marco Minniti? Uno sceriffo, uno sbirro, l’erede di Mario Scelba, il titolare dell’Interno negli anni Cinquanta, «il più impopolare e odiato uomo d’Italia», lo definiva “l’Unità” organo del Pci, «el ministro de policia», lo chiamava Pablo Neruda, come oggi Marco Revelli sul “Manifesto” con il successore, solo che Scelba era un democristiano che faceva sfollare i comunisti e Minniti è un comunista che fa sfollare gli immigrati, e i sondaggi dicono che è il politico più gradito? Oppure, al contrario, è l’unico che ha una strategia a lungo periodo per disinnescare la bomba immigrazione, un kennedyano idealista senza illusioni che sta trasformando la sicurezza in un valore di sinistra, il governante più nominato oggi da una sponda all’altra del Mediterraneo, declinato in arabo in Libia, Egitto, Algeria, con crescente attenzione nelle cancellerie europee e in Usa? Di certo è il politico più controverso d’Italia. E forse il più potente.
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Del potere invisibile di Minniti si è intravisto un bagliore nel pomeriggio di lunedì 7 agosto, quando l’uomo del Viminale ha improvvisamente deciso di non partecipare al Consiglio dei ministri, infastidito per le critiche alla sua condotta con le Ong mosse dal collega delle Infrastrutture Graziano Delrio. Un’ora di sospensione, come un vuoto d’aria, in cui Minniti aveva fatto sapere di essere pronto a dimettersi, è bastata per convincere i palazzi della sua indispensabilità: sono arrivate le irrituali note di Palazzo Chigi e del Quirinale ad esprimere «grande apprezzamento» per il suo lavoro.
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Da quel momento in poi, il ministro che non appariva mai ha assunto agli occhi del grande pubblico carne, sangue e spessore. Appare nuovo, appena arrivato, eppure ha alle spalle una lunghissima esperienza e una storia tutta a sinistra, nel Pci. Un politico strutturato, vecchio stile. Minniti non ha truppe in Parlamento, non twitta, non siede nei talk-show che sono pronti a contenderselo alla ripresa della programmazione autunnale. Non ha neppure un portavoce, il suo staff si riassume in una sola persona, l’ex senatore del Pd Achille Passoni, marito della ministra Valeria Fedeli, per anni responsabile organizzazione della Cgil, l’uomo d’ordine del sindacato rosso.
Fenomenologia di un potente
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Si muove a suo agio tra divise, tonache, tuniche, turbanti, sultani, generali, frati francescani, tribù del deserto. Al Viminale, mesi fa, mise intorno al tavolo ovale al secondo piano del ministero sessanta capi clan libici, i Tebu, i Suleiman, i Tuareg. Ha incontrato a Bengasi il generale Khalifa Haftar, rivale del premier libico al Serraj, finora minaccioso con l’Italia. In mezzo, le feste dell’Unità, il palco della Versiliana per la festa del “Fatto quotidiano” e l’incontro nel convento di Assisi con il cardinale Gianfranco Ravasi. A 61 anni è un uomo appagato. Fare il ministro dell’Interno era il suo sogno, si sentiva predestinato all’incarico e per spiegarlo una volta ha tirato in ballo la cabala: lui è nato il 6/6 e ha giurato da ministro il 12/12, data di nascita della madre, a testimoniare il segno misterioso di una protezione e di un legame intimo tra la famiglia, la politica, lo Stato, i suoi orizzonti di riferimento.

Eppure nel Palazzo gli amici di partito, come Matteo Renzi, e gli avversari si chiedono dove voglia ancora arrivare. «Un tecnico della sicurezza», lo ha definito con livore il suo ex capo D’Alema, come se fosse l’addetto alle porte blindate, sbagliando perché il fenomeno Minniti è politico, la sua irruzione sulla scena e le reazioni che provoca, di adesione o di repulsione, vanno indagate come la spia di quell’interesse collettivo per una nuova figura che precede le più spettacolari ascese, o le più rovinose cadute.

Esiste un partito trasversale, prima sotterraneo, oggi visibile: il Partito di Minniti, il PdM, che sta scalzando il PdR, il partito di Renzi, ancora in campo ma che appare legato a una stagione passata. Un partito che spacca gli schieramenti e l’opinione pubblica. La sinistra, disposta a lacerarsi su tutto e anche su di lui, ma anche la destra, dove c’è una corrente di estimatori guidata da Gianni Letta e da Roberto Maroni e una di detrattori più timida, asserragliata nella trincea del “si può fare di più”, e perfino il Movimento 5 Stelle, dove le sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino mostrano di sentirsi comprese da lui più che dai compagni di partito.

Nel nome di Minniti si sono divisi i cattolici, tra il Vaticano, la Cei e le associazioni in trincea. Frequenta la Curia da quando, durante la guerra in Kosovo nel 1999, incontrava come sottosegretario del governo D’Alema il vescovo Giovanni Battista Re, oggi consulta con regolarità il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e monsignor Giovanni Angelo Becciu, il ministro dell’Interno vaticano. E sul giudizio da dare sulle sue azioni nel Mediterraneo - il codice di condotta per le Ong, l’affidamento alla guardia costiera libica dei profughi, come ai tempi di Gheddafi - si sfidano a duello mediatico gli editorialisti e i commentatori di ogni colore. «Il mio sostegno a Minniti è totale», ha spiazzato tutti la signora del giornalismo d’inchiesta Milena Gabanelli. «Ha deciso di mettere ordine in questo far west. Bravo Minniti», ha scritto il 2 agosto Marco Travaglio sul “Fatto”. Con il ministro stanno Vittorio Feltri («è il solo equilibrato e provveduto») e i giornali della destra, da “Libero” al “Giornale”. Sul fronte opposto, il cattolico “Avvenire” e il comunista “Il Manifesto”, con il sociologo Alessandro Dal Lago: «Caro ministro, sul rispetto dei diritti in Libia ci risparmi i suoi tormenti interiori. Non riuscirebbe più a dormire se indagasse nella sua coscienza». E il fondatore di Emergency Gino Strada: «Minniti ha una storia da sbirro e va avanti su quella strada. Per lui far finire donne e bambini ammazzati nelle carceri libiche è compatibile con i suoi valori».

Il ministro non replica in pubblico. Ma quando gli dicono che non è di sinistra ricorda la notte in cui la mafia uccise il militante del Pci Peppe Valarioti, suo amico: «Toccò a me dare la notizia alla famiglia». E rivela così la sua vera natura: animale a sangue freddo, in realtà un vulcano pronto a esplodere. Gli attacchi più insidiosi, però, arrivano dal Palazzo e dall’interno del suo partito, il Pd. In cui si elencano i capi di imputazione. Marco rischia di perdere la testa. Marco ha commissariato mezzo Consiglio dei ministri: fa insieme il ministro dell’Interno, degli Esteri, della Difesa, dell’intelligence, incontra i sindaci del Fezzan e non quelli italiani, anche Paolo Gentiloni è preoccupato. E in tanti pensano che il suo potere sia destinato ad aumentare quando, nei prossimi mesi, arriveranno a scadenza i vertici delle forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza: il capo della Polizia Franco Gabrielli, il capo del Dis Alessandro Pansa, dell’Aisi Mario Parente e dell’Aise Alberto Manenti, i comandanti della Guardia di Finanza Giorgio Toschi, della Marina Valter Girardelli, dell’Aeronautica Enzo Vecciarelli, il capo di Stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano e dell’Esercito Danilo Errico, il vertice dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette.

Alcuni di loro sono già in regime di proroga e difficilmente potranno essere congelati ancora. Ma le nomine coincidono con il periodo più caldo, la campagna elettorale che fino al voto consiglierebbe di non muovere pedine così delicate, alla vigilia di elezioni di cui è incerto il nome del vincitore. E sarà di nuovo Minniti a decidere, con Gentiloni se rimandare gli incarichi o concordarli con il centro-destra e M5S, con cui il ministro ha coltivato il dialogo fin da quando era sottosegretario ai servizi.

Renzi, per ora, non si espone e fa sapere di aver condiviso tutte le scelte. Ma i più vicini all’ex premier temono l’ascesa dopo il voto del 2018, verso Palazzo Chigi. E scrutano le mosse internazionali del ministro. Nel Sud Mediterraneo, dalla Libia all’Egitto, è considerato di casa. In Europa si è conquistato una notorietà. Negli Stati Uniti era poco conosciuto, ma un lungo articolo del “New York Times” lo ha consacrato come il «Lord of the Spies» italiano. E come una carta da giocare nella prossima legislatura. Una riserva per la premiership.

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Il suo amico Nicola Latorre, come lui nello staff di D’Alema e presidente della commissione Difesa del Senato, incaricato di missioni delicate come l’incontro di luglio con Al Sisi che ha preceduto il ritorno delle relazioni diplomatiche Italia-Egitto dopo l’omicidio di Giulio Regeni, giura che Minniti non organizza trame: «Al contrario di quel che si dice, il suo approccio alle politiche di sicurezza toglie spazio alla destra. C’è una strategia lungamente pensata». È la rivendicazione di un ruolo di prima linea per una generazione di politici di sinistra stretta per decenni prima dall’interminabile scontro tra D’Alema e Veltroni e poi dall’arrivo del rottamatore Renzi. Oggi che la vecchia guardia dell’ex Pci è in disarmo e il golden boy toscano deve reinventarsi un ruolo tocca a Minniti coprire il vuoto di politica che non è solo italiano. Arriva al vertice non da uomo di un partito cui è rimasto fedele e che non c’è più, ma da uomo di Stato. Alla guida di un potere dimenticato negli anni della globalizzazione finanziaria, della fine degli Stati, di Ue, Fmi, Bce, agenzie che hanno gestito le politiche nazionali da lontano e in modo immateriale. Il potere della sicurezza di chi detiene il monopolio legittimo della forza e presidia confini, costruisce barriere, respinge corpi, o li mette al riparo. La terra per dare l’assalto al cielo. Minniti è lì, in questa frontiera.

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