Sull'isola l’ultimo test prima delle elezioni del 2018. Il voto siciliano segna la nascita e la consacrazione di una nuova specie politica, destinata ad attraversare lo stretto per dominare la penisola: quella in cui tutto si confonde e si mescola, fino a rendere impossibile ogni distinzione
Chi vince in Sicilia vince in Italia, e chi perde nell’isola verrà sconfitto anche nel continente, si sente ripetere in questi giorni nel Palazzo della politica romana che riapre i battenti.
È questo il ponte che unisce il Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale siciliana - quest’anno celebra i suoi 920 anni di storia (il primo Parlamento siciliano fu istituito da Ruggero II nel 1097) - dove i commessi ti accolgono con la stessa divisa in grande spolvero dei colleghi del Senato, l’unico ponte sullo Stretto davvero costruito,
quello che collega i baroni delle preferenze siciliani con gli aspiranti capi nazionali.Il 5 novembre 2017 come il 4 dicembre 2016, la domenica del referendum, la data che segna una stagione, alla vigilia delle elezioni generali del 2018, l’ultima occasione per misurare percentuali, sperimentare alleanze, rovesciare leadership. L’operazione Husky della politica italiana: come successe nel secondo conflitto mondiale agli anglo-americani, chi sbarca in Sicilia trova poi la strada per risalire fino alla Capitale.
Oggi come nel 1943 con la mafia, per farlo bisogna stringere accordi e patti con tutti i poteri locali, anche quelli inconfessabili.La Sicilia come metafora, teorizzava Leonardo Sciascia.
Nell’isola in cui le carriere politiche sono come il duomo di Siracusa, procedono a stratificazioni: da tempio siculo a jonico a dorico a prima chiesa cristiana d’occidente, a moschea musulmana, fino a tornare duomo cattolico, ma rimanendo al fondo fedeli a una identità che precede culture e religioni e tutte le riassume. In queste settimane ancora di più.
È stata un’estate di ininterrotto su e giù tra Palermo, le Eolie, Roma, Firenze, Arcore. Tra Matteo Renzi e Leoluca Orlando, che fu sindaco di Palermo rottamatore della Dc all’inizio degli anni Novanta e oggi prova a ricucire l’armonia nel centrosinistra con l’invenzione come candidato-presidente del rettore
Fabrizio Micari. O tra Luigi Di Maio e
Giancarlo Cancelleri, il front runner del Movimento 5 Stelle. Oppure tra Silvio Berlusconi e il professor
Gaetano Armao: docente, consigliere, consulente, commendatore al Merito Melitense, membro della Arciconfraternita di Santa Maria Odigitria dei Siciliani in Roma, snocciola il suo curriculum come i grani di un rosario, insieme alle 108 pubblicazioni da lui di persona personalmente censite (tra le ultime: “Il netto storico nella pianificazione urbanistica alla ricerca di una qualificazione legislativa” e “La prosopopea di rating antimafia e white list: il Ministero dell’interno, l’Antitrust ed i paradossi del professionismo dell’antimafia”). Cita don Luigi Sturzo, il prete fondatore dei popolari e democristiani nato a Caltagirone dopo l’unità nazionale, e guida l’Unione dei siciliani indignati che piace moltissimo all’ex Cavaliere di Forza Italia.
Ognuno con la sua partita:
il Pd per non affondare e non dilaniarsi nella resa dei conti post-sconfitta con la segreteria di Renzi che entrerebbe in crisi, il centrodestra per fissare le quote tra i berlusconiani guidati da Gianfranco Micciché e i salviniani-meloniani (da Giorgia Meloni) rappresentati da Nello Musumeci,
il Movimento 5 Stelle che si gioca la possibilità di conquistare per la prima volta una regione, Angelino Alfano per far contare al tavolo nazionale le truppe a lui fedeli nell’isola. E le divisioni, i giochi di specchio, le manovre degli ex presidenti Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, l’uscente Rosario Crocetta che seguendo i consigli del potente senatore Beppe Lumia tratta con il Pd un posto da senatore in cambio del ritiro silenzioso, ma che in caso contrario sarebbe pronto a ricandidarsi, spaccando il centrosinistra e restituendo a Micciché la cortesia che gli fece lui cinque anni fa dividendo la destra e regalando la vittoria al Pd.
E il Campo di Giuliano Pisapia che all’esordio rischia di spaccarsi tra gli amici dell’ex sindaco di Milano come Orlando che si propongono come registi dell’accordo con il Pd e i dalemiani dell’isola che vogliono la sconfitta di Renzi e non si preoccupano di mettere in luce la difficoltà di guida di Pisapia, anzi.
Ma più che per gli scenari politici, e per le strategie nazionali,
il voto siciliano interessa perché segna la nascita e la consacrazione di una nuova specie politica, destinata nel 2018 a traversare lo stretto per dominare la penisola. Non ci sono più solo gli ominicchi e i quaquaraquà e gli uomini d’onore e Cosa Nostra. E gli sciacalletti, le iene, i leoni e i gattopardi che continuano a credersi il sale della terra, di cui scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
La nuova specie avanza al termine di un decennio di anti-politica in cui tutto ha finito per confondersi e mescolarsi, fino a rendere impossibile ogni distinzione: i rivoluzionari e i conservatori, i rottamatori e i neo-centristi, i profeti della democrazia diretta e gli oligarchi, la casta e l’anti-casta. E il risultato, alla fine, è una nuova creatura mitologica, che minaccia di durare a lungo. Il capovolgimento di una stagione. Il Grillopardo.
Sono passati giusto dieci anni dall’8 settembre 2007, data cruciale per la storia recente, il Vaffanculo Day, con il comizio di Beppe Grillo a Bologna, in piazza Maggiore stracolma come non si vedeva da tempo. Oltre trecentomila firme raccolte in poche ore per la legge di iniziativa popolare Parlamento pulito: impedire la candidatura in Parlamento a condannati in via definitiva, o in primo e secondo grado e in attesa di giudizio finale, limitare a due i mandati parlamentari, tornare alla preferenza per scegliere gli eletti. «Giulio Santagata, ministro del governo Prodi, ha detto che sto pensando di formare una lista per le elezioni europee del 2009. Non hanno capito niente», scriveva il comico sul suo blog all’indomani del
V-Day. «I partiti sono incrostazioni della democrazia. Bisogna dare spazio ai cittadini. Alle liste civiche. Ai movimenti. Viviamo in partitocrazia, non in democrazia». Un anno dopo, il 4 settembre, tirava le somme:
«Il Paese è in pieno delirio. Il delirio della democrazia si diffonde e trasforma in merda ciò che tocca…». Ma la soluzione, spiegava Grillo, Italy’s most popular comedian, lo definiva “The New Yorker”, non poteva essere un nuovo partito in Parlamento: «sarebbe un sano di mente in un manicomio criminale».
Si cominciava a parlare di antipolitica, cresciuta nelle democrazie moderne, nella
«società della sfiducia generalizzata», scriveva il francese Pierre Rosanvallon. In Italia, un fossato gigantesco. Con la sua parola d’ordine – resettare, eliminare, cancellare con un clic «gli intermediari», i vecchi partiti e i vecchi giornali – Grillo era in ottima compagnia. «Il sistema dei partiti costa al contribuente 200 milioni di euro l’anno. Prevale l’occupazione della società: neo-interventismo pubblico, assoluta concordia bipartisan sull’uso privato delle risorse pubbliche…», aveva predicato tre mesi prima del V-Day l’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo all’assemblea degli industriali. E aveva indicato la sua soluzione: «bonificare la crescente foresta generata soltanto per creare poltrone e affari».
Il bonificare montezemoliano assomigliava da vicino al grillesco resettare, ma in questo caso l’invettiva arrivava dal vertice dell’imprenditoria italiana. Infine, all’indomani del V-day, Silvio Berlusconi aveva rivendicato la paternità del fenomeno: «Sono io il primo antipolitico, essendo un imprenditore prestato alla politica». E non aveva tutti i torti. Renzi, in quel momento, aveva 32 anni e faceva il presidente della provincia di Firenze. E cominciava a pensare alla rottamazione: un altro modo di dire Vaffa. In apparenza più gentile, in realtà più crudele.
Dieci anni dopo, la V del V-day sventola nel simbolo del Movimento 5 Stelle. Ma nel frattempo quella lista che Grillo giurava di non voler mai fare si è candidata in tutte le elezioni, è diventata un partito, il più partito di tutti, con regole ferree di inclusione nel gruppo ristretto di comando e di esclusione con ignominia per chi dissente: aveva ragione il povero Santagata.
M5S si prepara alla conquista della Sicilia, predicando il cambio degli eletti e la conservazione degli elettori, delle loro cattive abitudini: abusivismo, clientelismo, spreco di risorse pubbliche. Il solito cambiare tutto per non cambiare niente. Oppure, come aveva previsto Sciascia osservando negli anni Settanta un manifesto del Pci siciliano, la nascita di un nuovo verbo, il “lottagovernare”: «In politica sembrava ovvio che una parte volesse diventare maggioranza; che si volesse, insomma, vincere. Ma lentamente ci accorgeremo che l’arte della politica consisterà nel trovare gli accorgimenti più acuti e più nascosti per non prevalere, per non vincere».
I Grillopardi cercano il potere, non il governo. In Sicilia e in Italia. A Roma la specie si capovolge. La V più gettonata è quella di vitalizio. Il nuovo V-day andrà in scena quando nell’aula del Senato arriverà la riforma che introduce il metodo contributivo per i vitalizi degli ex parlamentari. La vuole il Pd renziano con il deputato Matteo Richetti, è già stata votata dalla Camera con il voto di M5S. Nell’attesa sta avvenendo l’inaudito, la rivolta dei senatori democratici contro le indicazioni del partito. Il Vaffa alla rovescia, l’orgoglio degli eletti e della casta, ha trovato il suo campione, il suo Grillo nel senatore Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds, custode del patrimonio ideale (e materiale) del Pci: «Io non c’entro nulla. Il vaffa al vaffa è arrivato dal popolo, con il voto del 4 dicembre. Renzi voleva vincere tagliando i senatori e togliendo loro l’indennità e l’elettorato ha detto no. Dovremmo parlare di lavoro e invece continuiamo a inseguire Grillo...».
Delle tre riforme del V-Day di dieci anni fa la prima, quella sui politici condannati pesa oggi come un incubo sulla sindaca di Roma Virginia Raggi, la seconda, il limite dei mandati, sarà cavalcata da Renzi nel Pd per far ruotare i parlamentari delle precedenti stagioni. Infine, le preferenze ci saranno, ma appaiono ai più esperti come un’istigazione a delinquere per
i futuri candidati in Parlamento che in assenza di una nuova legge elettorale si ritroveranno a gareggiare in collegi sconfinati (al Senato coincidono con le regioni) per prendere i voti, con la necessità di procurarsi fondi senza il finanziamento pubblico dei partiti e con il reato di traffico illecito di influenze che può essere contestato dalla magistratura.
La Sicilia anticipa la campagna elettorale dei Grillopardi. Gli anti-casta di ieri hanno una sola ambizione, diventare la casta di domani. Chi governava il Paese da Palazzo Chigi ha cavalcato il vaffa smarrendo il senso delle istituzioni e perdendo. E chi punta ad approfittarne, come sempre, è Berlusconi, moderato a Roma e indignato a Palermo. Avviene qui l’incontro tra le due razze, E forse, dopo dieci anni, come diceva Grillo, è venuto il momento di resettare una politica travestita da anti-politica, un incrocio che alla fine lascia i siciliani e gli italiani di fronte all’impossibilità di cambiare.