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Politica
ottobre, 2018

Luigi Di Maio, colui che dice tutto e il contrario di tutto

Luigi Di Maio
Luigi Di Maio

Il capo politico dei 5 Stelle non è un leader: è una macchina che fa quello che serve, all’occorrenza. La sua linea dura una settimana, un giorno, un attimo. Alla Casaleggio serve così, sempre intercambiabile. A seconda della bisogna

Luigi Di Maio
Dice tutto e il contrario di tutto, è il re della pesca delle occasioni, il signorotto del mainstream con l’aria di non esserlo, è il feudatario del fare e disfare, ma la colpa non è sua. Come Jessica Rabbit: è che lo disegnano così. Dall’alto delle sue mille cariche Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco, 32 anni, vicepremier, ministro del Lavoro, ministro dello Sviluppo economico, capo politico del Movimento Cinque Stelle, è in effetti la forma più evoluta di una categoria che lo precede: il frontman. Il frontman di una macchina che l’ha istruito a fare ciò che serve all’occorrenza - al momento, incarnare il sovranismo populista, dopo anni di moderatismo democristiano.

Un frontman sotto-ordinato a Davide Casaleggio, per un verso, e a Matteo Salvini, per l’altro. La prova vivente che l’esperimento voluto dal creatore e fondatore Gianroberto Casaleggio, padre di chi ora tiene i fili dell’M5S via Associazione Rousseau, può per certi versi dirsi riuscito: realizzare il leader fungibile, intercambiabile, perennemente credibile nell’articolare la linea della settimana, del giorno, dell’attimo; il politico «considerato in termini utilitaristici dai cittadini» - come disse una volta il guru riccioluto della Casaleggio Associati. Una banderuola post-ideologica, uno strumento la cui dote fondamentale è quella di apparire coerente. Eccolo, in carne, ossa e dirette Facebook.

Elenco
Tutte le bugie e fake news di Luigi Di Maio da quando è al governo
16/10/2018
Dalle alleanze («con la Lega mai!») alle grandi opere («no Tav!»), dalla meritocrazia («inviateci i curriculum!») agli amici d’infanzia piazzati nei posti che contano fino ai condoni che ora si chiamano pace fiscale, dall’Ilva ai vaccini, è difficile trovare un tema sul quale Di Maio - e il Movimento al quale presta la faccia - non abbia piegato le dichiarazioni alla scelta del momento. Torcendole con la stessa enfasi, in direzioni uguali e contrarie. Oppure - ancora meglio - impastandole, con molta acqua, nella farina della comunicazione, fino ad ottenere una inafferrabile ma innocua fanghiglia. Qualcosa in cui eccelle l’apparato guidato da Rocco Casalino che manovra parole e video, affacci e silenzi. E nella quale, come tratto comune, la vera fake news è alla fine una: che ci sia davvero coerenza.

«Non si capisce bene»
In queste pagine abbiamo selezionati alcuni, pochissimi, esempi di una casistica sterminata di posizioni ondivaghe, strumentali, opposte. Ma per certi temi la sintesi è impossibile (i vaccini, le Olimpiadi, la Tap). Lo testimoniano le parole di una politica certamente non di primo pelo come Marine Le Pen: «Nel Movimento Cinque Stelle c’è tutto e il contrario di tutto», ha detto la leader di Rassemblement National in una intervista, in occasione della sua venuta a Roma: «A Bruxelles ho ascoltato da parte dei loro eurodeputati discorsi molto pro-immigrazione. Quando si esprimono in Italia, sono più opposti agli immigrati. Non mi sembra che esista una omogeneità ideologica al loro interno. Non si capisce bene».

Europa sì, Europa no
Ecco: non si capisce bene. Una non comprensione che in alcuni casi è un successo supremo: perché la confusione scoraggia l’intelletto, e nel caso di una linea che si auto-contraddice è meglio che gli elettori siano scoraggiati a tentare di capire. Come per la questione Europa/Euro. Sulla quale le posizioni sono cambiate talmente tante volte che la ricostruzione delle posizioni è materia per filologi, e una previsione sul futuro pressoché inutile.

Basti citare - a rischio di provocare un immediato mal di testa - il clamoroso (e fallito) passaggio di alleanze M5S al Parlamento europeo, dagli antieuropeisti dell’Ukip dell’inglese putiniano Nigel Farage, al gruppo più europeista di Bruxelles, l’Alde. Oppure, ancora meglio: la sparizione dell’uscita dall’euro dal programma elettorale per il 2018, quando al contrario nel 2014 si raccoglievano le firme contro l’euro e anche Di Maio firmava per fare un referendum, mentre nel 2016 l’allora vicepresidente della Camera vagheggiava di un «euro 2 o moneta alternativa». Riuscendo peraltro nel miracolo che nessuno gli chiedesse poi conto di cosa stesse parlando, esattamente.

Da De Gennaro a Pinochet
Quella magia, quella specie di superpotere - che in realtà è fondato su un’attentissima gestione della comunicazione e della propaganda - è in fondo la stessa che avvolge sia l’esordio di Di Maio, sia la sua ultima evoluzione. Per quel che riguarda gli inizi, bisogna ricordare due cose. Una è che Di Maio, anni prima di presentarsi come webmaster a reddito zero alle parlamentarie grilline e prendere la manciatina di voti necessari a entrare in lista (e quindi in Parlamento), era un tipo capace di intervistare il potente Gianni De Gennaro, che all’epoca (2008) aveva appena lasciato il ruolo di capo della polizia per diventare capo di Gabinetto al ministero dell’Interno: immaginarselo Di Maio, con una telecamerina, da studente di Giurisprudenza, a 22 anni. Curioso, no? Ma, a parte scarni dati biografici, è vero che le origini di Di Maio sono leggendarie anche in altri punti. Come lo è lo straordinario e appassionante racconto che vuole lui , nel 2013, scelto e designato a fare il vicepresidente della Camera per conto di M5S perché, ragazzo di Pomigliano d’Arco, era stato così scaltro da farsi trovare preparato all’interrogazione sul Regolamento di Montecitorio. Una pensata che ebbe lui, e lui solo - mentre tutti gli altri, come ebbe a dire una pentastellata non sprovveduta come Roberta Lombardi, «erano 160 persone catapultate dall’oggi al domani in un posto che per noi poteva essere Marte». Singolare no? L’uomo che collocò Pinochet in Venezuela anziché in Cile, sapeva invece tutto sull’autodichia.
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L’avvento di Di Maio 2
Quanto all’oggi, la magia consiste in questo. Da quattro-cinque mesi ci troviamo davanti ad un altro Giggino: e non ce ne siamo quasi accorti. Lo switch, il momento di passaggio da uno all’altro, si può collocare per comodità nel momento più drammatico della formazione del governo. Quando il Colle resisteva nel suo no all’ipotesi di nominare Paolo Savona al ministero dell’Economia, il capo del Carroccio Matteo Salvini parlava di tornare alle urne; e Di Maio arrivò a proporre l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica («questa non è una democrazia libera, la scelta del capo dello Stato è incomprensibile»), e ad evocare «reazioni della popolazione», insomma a suggerire manifestazioni di piazza. Lui sì, il suo futuro alleato no.

Il leader leghista, infatti, quella sera si guardò bene dall’evocare una prospettiva del genere, rifugiandosi furbamente in rimbrotti contro Silvio Berlusconi e in una specie di «sono nervoso, meglio che sto zitto». Quel giorno, il 27 maggio, entrò ufficialmente in vigore il “Di Maio 2”. E nessuno si ricordò più del “Di Maio 1”, il volto moderato del Movimento, quello presentabile e rassicurante. Il democristiano, addirittura - l’erede dell’ex ministro dc Vincenzo Scotti, oggi alla guida della Link university. Il giovane grillino assimilabile ai riti romani della politica, che tutto pre-digerisce e rende bolo, come in un gigantesco e rassicurante stomaco di mucca. Di Maio stesso, in qualche modo, aveva preannunciato il passaggio, con un famoso video di qualche giorno prima: quello in cui, parlando della trattativa con la Lega e della prospettiva di andare al governo, diceva «se ci riusciamo sarà una bomba», evocava «il bivio tra il coraggio e la paura», ed esortava: «Chi ha il coraggio, abbia il coraggio di andare fino in fondo». Sembrava soccombente - un ultimo giapponese disposto a tutto per non sparire- invece era in prima linea : e non perché sospinto dal timore di venir surclassato, ma perché pronto al disegno successivo, che si stava rivelando vincente. Quello dell’alleanza con il Carroccio (partito al quale Gianroberto Casaleggio aveva guardato con simpatia), un accordo che avrebbe, necessariamente, portato alla luce un lato estremista, prima non utile al progetto, del ragazzo di Pomigliano. Al contrario, apertasi la strada per così dire sovranista e populista, Di Maio ci si è infilato trionfante.

Fine degli equivoci
È così finito il lungo equivoco del Di Maio moderato. Quello che, per l’appunto, sapeva a menadito il Regolamento parlamentare, quello che indossava la giacca e la cravatta pure per andare al mare, l’opposto dei fricchettoni alla Alessandro Di Battista. Colui che, per almeno un biennio, è andato in giro a tranquillizzare mezzo mondo, frontman in quel caso della tesi che i Cinque stelle non erano i mostri anti-sistema che si voleva dipingere.

Ricordate il tour che partì a metà 2016, e durò quasi due anni? Le ambasciate e gli incontri in Vaticano, il forum Ambrosetti di Cernobbio e le presentazioni di libri con Gianni Letta, diplomatici, manager, addirittura un pranzo all’Ispi, con fra l’altro Carlo Secchi, già rettore della Bocconi e presidente della berlusconiana Mediolanum, ma soprattuto presidente del ramo italiano della Trilateral commission. Tutte iniziative che avrebbero dovutoessere fumo negli occhi per l’universo grillino, invece - curiosament? - non si registrarono polemiche. Di Maio intanto incontrava a pacchi i diplomatici (nell’ambasciata olandese erano in 28), e rispondeva a domande come «chi decide nei Cinque stelle». Confezionava incontri come quello ad Harvard, organizzato da un laboratorio esterno alla struttura internazionale dell’università. Diceva, al Film festival di Giffoni, di sentirsi «un po’ come Superman che sta capendo i poteri che ha».

Casalino über alles
In realtà, allora come adesso - poteri di SuperDiMaio a parte - a gestire l’intera macchina è la struttura comunicativa. Quella che fa capo al sempre più potente (è possibile? È possibile) Rocco Casalino. L’ingegnere di Ceglie Messapica, l’ex concorrente del Grande Fratello, dopo lungo battagliare ha di recente acquisito anche il controllo sul comparto festa-di-partito, che l’anno scorso era in mano a Max Bugani e David Borrelli, prima ancora alla potente Roberta Lombardi, adesso invece allo «staff comunicazione», insomma a quelli che si potrebbero battezzare “i casalini”, come fossero una corrente fortemente verticalizzata. Coloro che, in una sapiente triangolazione tra Roma, Milano e personaggi fondamentali come Pietro Dettori (oggi in forze a Palazzo Chigi, responsabile della comunicazione social ed eventi del vicepremier) gestiscono praticamente tutto. Dai profili social alle grandi scelte comunicative.

Dalle password ai balconi
Il dominio è totalizzante. Per quel che riguarda i primi, è stata l’eurodeputata Daniela Aiuto che, annunciando di lasciare M5S, in una intervista alla Stampa ha confermato nei giorni scorsi la richiesta di password (circostanza già sostenuta anni fa dal Foglio, e all’epoca non smentita): «La Belotti, responsabile comunicazione M5S a Bruxelles, chiese agli eletti di consegnarle la password di accesso alle nostre pagine Facebook. Voleva avere il potere di cancellare qualunque post ritenesse poco opportuno. Io ovviamente non gliela diedi, ma tanti altri sì». (per gli appassionati della materia: Davide Casaleggio, intervistato da Panorama la scorsa settimana, alla domanda se la Casaleggio avesse mai chiesto le password delle email ai grillini, ha risposto: «È falso. Leggete troppo i giornali italiani»). Quanto alle scelte mediatiche, è Casalino il regista delle più rilevanti: la festa davanti a Montecitorio per il taglio dei vitalizi degli ex onorevoli, la costellazione delle dichiarazioni dei grillini che sostennero la richiesta di impeachment, il raduno a Palazzo Chigi dopo l’approvazione della nota di aggiornamento del Def, affaccio al balcone dei ministri grillini compreso. Anche in quel caso, il frontman Luigi Di Maio ha fatto la sua figura, nei termini previsti, con tanto di luce da sotto in su, giusto per rendere più inquietante l’intera faccenda.

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