Perché tutte le promesse ai ceti deboli sono destinate a fallire
Con la fine degli Stati non esiste più la libertà di spesa necessaria per politiche davvero socialdemocratiche. Ed è anche questo ad aver ucciso il Pd e che domani può valere per il M5S
di Massimo Cacciari
15 marzo 2018
PD_WEBRisultati come quelli delle elezioni del 4 marzo non sono spiegabili nei termini della cronaca politica, né raccontando errori e deficienze di questo o quel leader. Certo, la vicenda del centrosinistra italiano, a partire dalla fine dell’Ulivo, la ostinazione nell’insistere, in tutte le sue componenti, su una rotta fallimentare, ha dell’incredibile. Dalla fusione burocratica a freddo tra culture politiche imbalsamate nelle proprie tradizioni, impegnate a frustrare in una logica di mera cooptazione qualsiasi forza culturalmente rappresentativa delle nuove generazioni, all’insensata volontà di non riconoscere per tempo il fallimento del progetto Pd, continuando cosi una coabitazione forzata all’interno della “ditta” con l’unico risultato di massacrarsi a vicenda, fino alla sciagurata gestione delle riforme istituzionali e del referendum, dove nessuno dei vassalli e valvassini ha frenato la suicida “cupiditas dominandi” di Renzi, via via fino al capolavoro della scissione alla vigilia della campagna (e nulla importa chi dei duellanti ne sia più colpevole) e di una propaganda elettorale all’insegna del “che bravi siamo stati”.
Se questa catena di comportamenti irresponsabili fosse stata meno clamorosa, se Renzi avesse saputo o voluto seguire, “en marche”, la propria “vocazione”, e competere davvero con i “moderati” del centrodestra, e se la sinistra del Pd invece di giocare nel palazzo all’anti-Renzi avesse rappresentato con decisione il reale e crescente malessere di tanta parte del Paese e competere su questo terreno con i 5 Stelle, il risultato non sarebbe stato tanto catastrofico. E tuttavia nulla sarebbe davvero cambiato. Poiché la natura della crisi è profonda, e va oltre i demeriti di chicchessia, come va oltre i meriti degli stessi vincitori. Né si risolve con le dimissioni di Renzi, con nuove primarie, stando dentro o fuori futuri governi. Se non si acquista un minimo di consapevolezza intorno alla sua natura, ogni preteso rimedio non farà che aggravarla.
Si dice crisi della “sinistra”. Ma già il Pd non era più propriamente “sinistra”. La sua stessa nascita, e l’Ulivo prima, riconoscono dal proprio stesso nome l’esaurirsi di questa denominazione. Lo riconoscono di fatto, ma senza riuscire a esprimere una cultura politica e una strategia capaci di rappresentare forme di lavoro, relazioni di dipendenza e di subalternità, disuguaglianze e ingiustizie proprie della nuova fase storica. Continuano a pensare il “salto” all’interno dei vecchi schemi e ad affrontarlo secondo i criteri del riformismo socialdemocratico e popolare già ferito a morte da Reagan e Thatcher. Massimo Cacciari Quando i leader della cosiddetta sinistra europea, nel corso dell’ultimo trentennio, assumono posizioni di governo, la loro dipendenza culturale dai paradigmi liberisti è sempre evidente. I più vicini alla tradizione cercano il compromesso. Quelli di “destra” inseguono le posizioni degli antichi avversari in materia fiscale, del lavoro, nella stessa politica estera ecc.
Questa storia conduce in Italia all’attuale risultato: il peggiore per la sinistra dall’immediato dopoguerra. Una storia di crescente subalternità. Poteva andare diversamente? Lo potrà? Molto difficile. Perché? Le sorti della sinistra europea, cosi come in larga misura dello stesso riformismo popolare, si collegano strettamente alle sue capacità di svolgere una politica fiscale ed economica che rafforzi in tutti i sensi il ruolo dello Stato sociale, attui con ogni mezzo politiche di piena occupazione e distributive a favore del lavoro dipendente, abbia come suo fine l’uguaglianza nei diritti e nelle opportunità. Questa strategia è stata messa in crisi radicalmente dai processi di globalizzazione, dalle nuove forme del capitalismo internazionale. I suoi limiti sono gli stessi dell’attuale sovranità statale. Se un singolo Stato attuasse un attacco deciso alle rendite finanziarie e politiche di deficit a sostegno dell’occupazione verrebbe immediatamente aggredito dalla speculazione e vedrebbe crollare gli investimenti al suo interno.
La realtà è questa: le politiche socialdemocratiche tradizionali avevano bisogno di amplissimi margini di sovranità nazionale e autonomia della decisione politica. Esattamente ciò che oggi invocano a gran voce i pentastellati e, a modo loro, i leghisti. In particolare il programma dei 5 Stelle è molto “di sinistra” - e infatti ha attratto milioni di voti dal Pd - ma forse gli amici non hanno ben compreso le ragioni storiche del tracollo socialdemocratico nell’intero vecchio continente, e se la cavano attribuendolo alle cattive intenzioni di qualche Renzi di turno. Come credevano fosse semplice amministrare grandi città, così oggi ritengono (o fingono di ritenere) che sia possibile governare l’Italia dall’alto dell’altare della Patria. Meditino piuttosto sui confini oggettivi contro cui hanno sbattuto nell’ultimo trentennio le politiche socialdemocratiche, confini che la crisi economica ha trasformato in muraglie cinesi. Promesse “di sinistra” non mantenute si trasformano in assist per la destra peggiore.
E purtroppo di promesse mantenibili la sinistra può oggi farne poche. La incontenibile volubilità delle scelte elettorali dipende da questo. È facile e rapido passare dal 40 al 20 per cento, vero? Basterà la prossima volta che invece di aumento delle pensioni, riduzione dell’età pensionabile, redditi di cittadinanza e via dicendo, si consegua lo straordinario risultato del taglio dello stipendio e dei vitalizi per gli onorevoli deputati, e cioè miserie più misere ancora dei famosi 80 euro.
La verità nuda e cruda è che non potrà più esservi politica socialdemocratica se non a una dimensione europea. Questo è davvero il compito che una sinistra - se ancora si vuole usare tale denominazione - dovrebbe assumere: costruire una sua organizzazione comune su scala continentale. Recuperare su questo terreno l’antica vocazione internazionalista. E porre cosi la propria candidatura, con idee e uomini all’altezza del salto d’epoca, alla guida della Unione, al fine di realizzarne la piena unità politica.
Qualsiasi politica di sinistra su scala nazionale finirà in giaculatorie e promesse più o meno irrealizzabili, destinate a confondersi con demagogie e populismi della più diversa natura. E neanche questo sarebbe il male peggiore: mentre la politica europea - e in larga misura quella dell’Occidente in genere - si va trasformando in puro “occasionalismo”, in alternanza caotica di leadership, linguaggi, partiti e movimenti, Russia e Cina si strutturano su gruppi dirigenti e strategie imperiali che nulla hanno a che vedere con i nostri valori democratici. È sul terreno di questa sfida davvero globale che una sinistra europea potrà riformarsi - o dovrà tacere per sempre.