Analisi

Dire che si sta meglio senza un governo è una follia

di Bruno Manfellotto   8 maggio 2018

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I profeti dell'autodìchia dimenticano le sfide che il nostro Paese deve affrontare e a cui può rispondere solo con un esecutivo. Come ad esempio i dazi imposti da Trump e a cui l'Europa, senza l'Italia, sta provando a opporsi

Quando la futurologia politica fa difetto e la conversazione si arena, c’è sempre qualcuno che con un sorriso azzarda: «Ma in fondo che male ci sarebbe a restare per mesi senza governo: Germania, Spagna, Olanda, Belgio lo hanno fatto e sono felicemente sopravvissuti, no?, anzi godono di ottima salute». Progetto rasserenante e liberatorio: basta consultazioni e veti, ingegnerie istituzionali e alleanze di fantasia, minacce di voto e partiti spaccati. E galleggiare felici…

Purtroppo così non è. Pure al netto dei casi specifici (i “senza governo” hanno goduto e godono, chi più chi meno, dei benefici di drastiche misure di bilancio prese ben prima della loro crisi politica) c’è un fatto fresco fresco che dovrebbe far recedere i profeti dell’autodichìa. Donald Trump, come sapete, fedele al motto vincente “America first”, ha proclamato la guerra dei dazi per frenare l’importazione di prodotti che fanno concorrenza alle imprese Usa. Ha cominciato con acciaio e alluminio (avvertimento alla Cina), intende continuare con le auto, e soprattutto ha annunciato che la lista dei paesi da colpire comprende anche quelli d’Europa, a lungo risparmiati. Ora, come la storia insegna, una guerra così si sa quando comincia ma non quando finisce perché di minaccia in ritorsione l’elenco dei paesi e delle merci sotto tiro si allunga a dismisura. E per chi vive di export, vedi Germania e Italia, sono guai seri.

Per metterci una pezza, Emmanuel Macron e Angela Merkel sono corsi a Washington, ma una cosa sono le ovazioni del Congresso americano al presidente francese o le foto delle first lady sorridenti e di bianco vestite, altra è la realtà: The Donald non ha mollato di un centimetro perché, secondo il metodo Corea, l’uomo prima mette il dito sul pulsante del missile, poi si vede. E allora si è passati alle dichiarazioni polemiche concordate parola per parola dai tre grandi d’Europa: Macron, Merkel e Theresa May. E l’Italia, socio fondatore dell’Ue e settima potenza mondiale? Dimenticata, snobbata, ignorata. Anche perché chi risponderebbe a una telefonata di Macron? Il governo è in carica solo per l’ordinaria amministrazione, e quello che verrà chissà quando verrà. Amen.

Se in politica l’inconcludenza produce «stallo» (copyright Sergio Mattarella), il non governo dell’economia porta insignificanza e paralisi. Finora, riconoscendo un “caso italiano”, Bruxelles ha chiuso un occhio lasciando che Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan si limitassero a presentare una bozza di documento economico (Def) a “legislazione invariata” - ordinaria amministrazione, appunto - e facendo slittare i termini di presentazione della vera manovra di bilancio: toccherà al nuovo governo. Già, ma quando? Perché se il tempo passa, gli appuntamenti obbligati restano.

Riguardando le carte italiane, per esempio, la Commissione s’è accorta che i conti non tornano, che il deficit 2018 ha bisogno di un’aggiustatina: una manovra correttiva di 5 miliardi. Non è poco. Bruxelles non li vuole subito, questi soldi, ma certo non li abbuona, qualcuno dovrà provvedere. Poi ci sono le vecchie sanzioni per non aver rispettato antichi patti, cioè aumenti dell’Iva (12 miliardi quest’anno, 19 il prossimo) da evitare assolutamente. E infine ci sarà da preparare la manovra per il 2019, solo che la campagna elettorale è stata una gara a chi offriva di più e non si capisce dove si possano trovare le risorse per dare a tutti ciò che è stato promesso.

Siamo sempre là: l’economia cresce, per fortuna, ma meno che altrove; bassa crescita vuol dire pochi margini per ridurre un debito ancora opprimente, per aiutare il lavoro - la disoccupazione è tra le più alte d’Europa - e per attenuare le disuguaglianze sociali qui cresciute di più. Mali antichi, mai affrontati alla radice. Ai quali si aggiunge adesso la guerra di Trump. Paolo Gentiloni ne ha prudentemente calcolato l’impatto in almeno mezzo punto di pil, un’altra decina di miliardi in fumo. Può andare anche peggio: Mario Draghi, che pure misura le parole, paventa la recessione. Incubo Grecia.

Prima o poi, è inevitabile, qualcuno dovrà metterci una pezza (e sarebbe comunque interessante sapere che cosa pensano i protezionisti Salvini & Di Maio del neoprotezionismo americano). Ma nella confusione del momento potrebbe sfuggire la posta in gioco. La crociata di Trump porta con sé qualcosa di più della difesa dell’impresa americana: mira a disarticolare il concorrente europeo, a indebolirne la governance con l’obiettivo di trattare via via non con Bruxelles, ma con i singoli paesi sensibili alle loro singole necessità. E l’Italia, come già si è visto, è troppo debole per un simile confronto.

Non solo. Dazi americani potrebbero mettere in crisi lo stesso modello di sviluppo adottato dai paesi europei per uscire dalla Grande Crisi: puntare tutto sull’export. Venti di guerra minano questo equilibrio e dovrebbero spingere ad adottare contromisure di lungo respiro. Forse, fedele alla filosofia andreottiana della prima Repubblica, l’Italia prima di tirare le cuoia tirerà a campare. Ma forse sarebbe più utile un’analisi sincera di ciò che è stato combinato finora. E un governo capace di farla.