Le Camere sono state svuotate ancora del loro potere, seguendo una tendenza che va avanti da anni, e si concentrano su misure punitive. Poche leggi, tanti voti di fiducia, errori e strafalcioni a non finire

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La XVIII legislatura ha festeggiato il suo primo compleanno e il governo gialloverde lo farà tra poco: auguri. Ma di che pasta è fatta la torta che ci accingiamo a gustare? Pasta frolla, mettiamola così; però stavolta chi viene frollato è il Parlamento.

È infatti questo il lascito che ci consegna l’esperienza: i funerali delle Camere, pace all’anima loro. Il 2018 era cominciato all’insegna della centralità del Parlamento (discorso inaugurale del presidente Fico, 24 marzo); si è concluso con l’approvazione della legge di bilancio (29 dicembre), forse la pagina più nera di tutti i Parlamenti.

Con i deputati costretti a discutere per settimane un testo già superato dagli accordi di Bruxelles, poi a votare un altro testo di 195 pagine, 1150 commi e un milione di cavilli, sotto il ricatto della questione di fiducia. E con i senatori che hanno votato a loro volta il maxiemendamento concepito all’ultimo minuto dal governo, senza il tempo non soltanto di dibatterlo, ma almeno di leggerlo.

E a proposito dei voti di fiducia. Nei suoi primi 9 mesi d’onorato servizio, il gabinetto Conte ne ha chiesti (e incassati) 9. Significa che il rapporto fra leggi approvate e fiducie richieste s’attesta al 28%, più o meno come i governi Renzi e Gentiloni, gli odiati nemici. D’altronde il sequestro della libertà parlamentare dura ormai da tempo, nulla di nuovo sotto il sole. O invece sì? Se il Parlamento è diventato un comitato esecutivo del potere esecutivo, in questa legislatura succede che l’esecutivo esegua a sua volta i diktat di due consoli: Salvini e Di Maio. Ne è prova il refrain di vertici (a due o talvolta a tre, con il Premier nelle vesti di sottoconsole), rispolverando una prassi politica della prima Repubblica. Ne è prova l’uso (anzi l’abuso) dei provvedimenti deliberati in Consiglio dei ministri «salvo intese». Intese fra chi, di chi? Ma fra i due consoli, of course.

Anche in questo caso, la prassi non è del tutto nuova. Risale ai governi Berlusconi, che vi ricorrevano in qualche circostanza; però adesso s’è tramutata in regola. Da qui i ritardi fra l’approvazione dei decreti legge e la loro pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale: 11 giorni per il decreto Dignità, 10 giorni per il decreto di riordino dei ministeri, 15 giorni per il decreto su Genova. Da qui la mortificazione dei ministri, ridotti a marionette senza voce. Come se deputati e senatori deliberassero una legge conoscendone solamente il titolo, mentre a scrivere gli articoli ci penseranno, con calma, Fico e Casellati. Da qui, infine, un’offesa alla certezza del diritto, oltre che al senso stesso della democrazia, giacché quest’ultima consiste essenzialmente in procedure, in forme che conformano il nostro vissuto comune.

Ma ormai la procedura legislativa sforna per lo più errori e strafalcioni. Fra gli ultimi episodi, la legge che ha istituito il reddito di cittadinanza (n. 26 del 2019), dov’è saltato un rigo, e insieme al rigo il sussidio per gli adulti diversi dal richiedente. E meno male che le leggi sono diminuite, nel numero se non anche nel peso. Anzi: la media mensile delle leggi approvate durante il governo gialloverde è la più bassa della storia: 3,5. Fu di 6,6 leggi ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi; 7,1 con Monti; 4,6 con Letta; 7,9 con Renzi; 5,6 con Gentiloni.

Un altro indizio della perduta autorità del Parlamento, benché la quantità non sia affatto sintomo di qualità legislativa. In questo caso, tuttavia, manca sia il primo che il secondo requisito. Ne è prova il vizio d’adottare leggi omnibus, che mettono in un solo paniere cavoli e cavalli. Ne è prova altresì la perdurante assenza di leggi di sistema, per turare le principali falle delle nostre istituzioni. E dunque nessuna legge sui partiti; né sul conflitto d’interessi; né sulla cittadinanza; né sulla disciplina elettorale.

Qual è invece il timbro, il segno dominante, della legislazione gialloverde? Il cattivismo. Non solo verso gli immigrati (cui il decreto Sicurezza toglie ogni residua sicurezza), anche verso gli italiani. Come dimostra l’inasprimento delle pene, moltiplicate al cubo per qualsiasi tipo d’infrazione. Un solo esempio: il Codice rosso, approvato il 4 aprile dalla Camera. Sicché, per dirne una, nel codice penale s’introduce il reato di «sfregio del volto» (che in realtà costituiva già un delitto), punendolo con la reclusione da 8 a 14 anni. Mentre, per dirne un’altra, la pena arriva a 5 anni per chi induca un altro al matrimonio profittando della sua inferiorità psico-fisica (e chissà quanti matrimoni, adesso, si trasformano in delitti).

Senza dire della legittima difesa, altro trofeo conquistato dalla nuova maggioranza. Dove - a parte i dubbi di legittimità costituzionale per la santificazione del far west - s’affaccia la pretesa d’annullare la discrezionalità dei giudici nella valutazione dei fatti e dei misfatti. Pretesa assurda, giacché è impossibile eliminare l’interpretazione, nel diritto come nella vita. Tutto ciò che sappiamo è sempre frutto di un’attività interpretativa, perfino quando ci infiliamo un termometro sotto l’ascella per misurare la febbre. Ma evidentemente nelle orecchie del gabinetto Conte riecheggia ancora il motto di Kirchmann: «un tratto di penna del legislatore e intere biblioteche vanno al macero». Risale all’Ottocento, al mito dell’onnipotenza dei politici. Questo nuovissimo governo sa d’antico.