La tattica della voce grossa adottata dall’inizio di marzo da Nixon e Kissinger e i loro non più tanto velati accenni al possibile ritiro del corpo di spedizione in Europa hanno però portato ora in primo piano gli elementi di fondo, e spinto Brandt e Scheel a schierarsi ormai apertamente al fianco degli americani. Almeno per quanto riguarda la progettata conferenza euro-araba, l’attuale schieramento di Londra e di Bonn ne rendono dunque l’attuazione largamente problematica.
La debolezza dell’Europa occidentale nei confronti degli Stati Uniti non deriva però solo da questi avvenimenti recenti. La sua vera causa è l’arresto, anzi la regressione, della costruzione comunitaria.
Tale costruzione si era basata infatti, fin dall’inizio, sul presupposto, non scritto ma non per questo meno essenziale, di una fondamentale omogeneità tra i paesi chiamati a far parte del Mec. E questo non era solo un atto di fede, perché effettivamente tra la Germania, in cui il miracolo economico si mischiava con il superamento delle ultime difficoltà del dopoguerra, e l’Italia che, nonostante i suoi settori di tradizionale arretratezza, era in piena ascesa economica e sociale, e, dalla parte opposta, la Francia e il Benelux, la cui maggiore ricchezza appariva compensata dall’invecchiamento di tanti settori industriali e dalle notevoli difficoltà coloniali, sembrava esistere, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, un certo livellamento, e quindi una certa possibilità di marciare e svilupparsi, senza troppa fatica, fianco a fianco. Da almeno 5-6 anni, questa omogeneità si è dissolta, e ogni paese ha cominciato, per motivi economici che hanno subito prodotto ripercussioni politiche, ad andare per i fatti propri. L’unico mezzo per arrestare un simile processo avrebbe potuto essere solo un rafforzamento delle strutture centrali. Poiché una simile strada non è stata percorsa, il fenomeno disgregativo ha acquistato, di mese in mese, caratteri sempre più evidenti.
Tale fenomeno ha tuttavia anche un’altra causa. Per quanto possa apparire paradossale, un altro dei presupposti non scritti dell’integrazione europea occidentale, era l’esistenza, in ognuno dei singoli paesi membri, di un forte potere centrale.
Soltanto governi forti e classi politiche forti possono infatti, se ne hanno la volontà, delegare una parte dei loro poteri ad istituzioni supernazionali: anche in questo caso si tratta di una decisione complessa, che richiede una buona dose di fermezza e di lungimiranza, ma pur sempre di qualcosa di fattibile. L’intera operazione diventa invece impossibile se i governi stessi perdono il controllo delle loro situazioni nazionali, sono costantemente sottoposti al ricatto delle clientele e dei gruppi di pressione locali, i quali, per loro natura, ignorano le istanze supernazionali, e tendono solo a difendere i propri interessi immediati. Adesso, è appunto questo sgretolamento dell’autorità statale che, pur raggiungendo in Italia le sue forme più avvilenti e macroscopiche, si sta producendo in tutti i paesi comunitari. Per questa via, ogni speranza di integrazione economica e politica è colpita al cuore, e per sempre.
Stando così le cose, gli Stati Uniti (e se dovessero fallire, o dopo di loro, l’Urss) hanno buone probabilità di imporre all’Europa occidentale le loro pretese. Certo è uno spettacolo abbastanza divertente, vedere che oggi perfino i giornali ed i giornalisti “di informazione” italiani, i quali fino a pochi mesi fa arrossivano solo a sentire nominare certe cose, parlano apertamente di un tentativo americano di costringere i paesi del Mec ad accettare una forma di sovranità limitata. Ma i dati di fondo della realtà politica internazionale non si fanno cambiare dagli stati d’animo (per di più tardivi). E il declino dell’Europa occidentale, iniziato esattamente sessant’anni fa, nell’estate del 1914, appare destinato a percorrere per intero la propria parabola.
Antonio Gambino è stato uno dei fondatori dell’Espresso. A dieci anni dalla sua scomparsa lo ricordiamo ripubblicando il suo “Taccuino internazionale” del 14 aprile 1974




